C’è un’immagine che mi torna costantemente davanti agli occhi in questa campagna elettorale che a tratti metafisici ne alterna altri psichedelici: quella di Fantozzi che, alle prese con le consultazioni popolari degli anni ’80, si chiude in casa dopo aver acquistato montagne di giornali e riviste e, seduto davanti alla tele, si sorbisce in un crescendo delirante ore e ore di dibattiti tra Berlinguer e Andreotti, Lama e Agnelli, Craxi e Almirante. Ora, al netto della nostalgia e della laudatio temporis acti sempre attiva nella mente dei già e non più giovanissimi, al netto del fatto che il più piccolo di quei politici sarebbe ora un gigante, resta che nei pochi giorni che rimangono da qui al voto, dovremo/dovremmo formarci un consenso informato per consegnare il futuro di ognuno a chi nei prossimi mesi (non osiamo pensare anni, dato che i Governi coevi hanno mantenuto anche nella Seconda Repubblica la tradizionale vita breve tipica di quelli della Prima, ma sommandovi una ineffabile incapacità a convivere in coalizioni che litigano già prima di essersi unite) ci dovrebbe governare.
Premettiamo una convinzione: il vero Governo italiano oggi è a Bruxelles. Chi pensa che Roma potrà staccarsene, allungare, allentare, ridiscutere la corda che ci tiene legati al von der Leyen Group o è un illuso o è un illusionista. Pensare che con 2.700 miliardi di debito possiamo andare a fare la voce grossa senza che chi ha i cordoni della Borsa ci consideri solvibili, credibili, recuperabili, beh è come se qualcuno volesse mandarvi in banca a chiedere qualche milioncino di euro (mica di lire, non sono così nostalgico da ripensare alle lirette on cui incartavamo il pesce), fornendovi come sola garanzia dei pagherò sottoscritti da persone plurifallite! La sola soluzione credibile per avere crediti e soldi sarebbe quella di presentarsi nella capitale d’Europa con la medaglia di aver rilanciato l’economia, sostenuto lo sviluppo, rimesso in moto il Pil. Cioè quel che ha fatto Draghi in questi 18 mesi di governo! A proposito: notato come nessuno di coloro che ci hanno mandato alle urne citi mai il numero di posti di lavoro realizzati negli ultimi sei mesi? Saranno precari, part-time, border-line, saran quel che volete, ma sono posti di lavoro! Domanda andreottiana: sarà mica per questo che lo hanno sfiduciato? Sarà mica che è scattata la sindrome dello scherzo al compagno di classe troppo bravo e che faceva sfigurare tutti noi? Se così fosse, staremmo tutti per divenire emuli del protagonista de L’ultima donna, il ben conosciuto e vecchio film di Marco Ferreri. In ogni caso, visto che soprattutto da questo dipenderà il nostro futuro, proviamo a chiederci come i politici nostrani vorrebbero rilanciare l’industria, cioè il Pil e quindi la quantità e la qualità dei posti di lavoro.
Premesso: negli ultimi dieci anni una sola legge ha riguardato direttamente l’industria, la produzione e quindi la nascita di nuovo impiego, ed è nota come Industria 4.0. Essa prese il nome dal processo che è ormai stabilmente al centro della trasformazione economica in Italia e nel mondo. La varò nel 2016 l’allora Governo guidato da Matteo Renzi per agevolare gli investimenti nella digitalizzazione delle aziende, e nel tempo è divenuta Transizione 4.0.
I tre anni di pandemia dovrebbero averci mostrato l’importanza di avere imprese capaci di operare digitalmente: basti pensare, banalmente, al boom dei software per meeting a distanza, ma l’esempio rasenta l’assoluta banalità! In realtà, Industria 4.0 è un’etichetta che è stata inventata dai tedeschi (e c’è chi li considera solo padroni da combattere e non invece modelli!) quando decisero di (e agirono per) ammodernare il sistema produttivo del Paese. Da allora loro, coerenti e precisi, si sono spesi per l’automazione, l’uso di big data e dell’intelligenza artificiale per manutenzione preventiva e ottimizzazione della produzione, per la creazione di sempre migliori ambienti di lavoro digitali, in favore della realtà virtuale applicata, per esempio, alla formazione e all’impiego delle reti 5G per connettere gli impianti. Tutta roba che riguarda tanto l’industria quanto l’artigianato e i servizi. Utile allora, nell’ottica che è nostra, vedere come (e se) il tema è stato affrontato nei programmi elettorali dei partiti in corsa. Così, giusto per essere informati sulla realtà che ci attende.
Cominciamo dai favoritissimi, il centrodestra (Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega). Nel programma non se ne parla in modo esplicito. Solo nel capitolo dedicato alle infrastrutture strategiche, e in quello dedicato all’incentivazione dei corsi universitari per le professioni Stem, a scuola, università e ricerca, si fiata di “potenziamento e sviluppo delle infrastrutture digitali ed estensione della banda ultralarga in tutta Italia”, misure legate indirettamente allo sviluppo di un’industria 4.0. Per completare il quadro di questa parte del mondo politico la Lega laddove discute delle attività produttive parla di investimenti in nuove tecnologie, come reti di comunicazione a banda larga (broadband), ultralarga (ultra broadband) o basate su reti satellitari, e in nuovi modelli di vendita come l’e-commerce, e di una formazione qualificata in tecnologie digitali. Più vicine al sistema industriale sono le proposte di ammortamenti dei costi in nuovi macchinari di impianti alimentati a fonti rinnovabili e di agevolazione della modernizzazione dei processi produttivi con la sostituzione gratuita di vecchi macchinari non più a norma con macchinari di dieci anni in meno. Si parla anche di trasformare gli istituti professionali in scuole di alta specializzazione. Non si dice nulla invece riguardo agli investimenti o agli obiettivi da perseguire.
Veniamo ai competitors (si fa per dire, vista la voglia di perdere che sembra animarne i dirigenti), cioè al Pd. Il partito guidato da Enrico Letta si limita a favorire la transizione 4.0, citiamo “in uno scenario che coniughi innovazione, concorrenza e sostenibilità” (cioè, in buon italiano?). Si parla però in maniera più estesa della digitalizzazione, di infrastruttura, mobilità, fisco, etichettatura dei prodotti e altri, e si promette di inserire la cosiddetta “digital literacy” nelle scuole. Lo sviluppo di industria 4.0 è qui, nella “literacy”.
Leggermente più elaborate invece le proposte presenti di Matteo Renzi e Carlo Calenda. Il programma elettorale si concentra sul potenziamento e ampliamento di tale strumento aggiornando la lista dei beni agevolati, aumentando il tetto massimo per gli investimenti – al momento fermo a 20 milioni di euro – ed estendendo il meccanismo di industria 4.0 agli investimenti per la transizione ecologica. Più avanti, nel capitolo dedicato a innovazione, digitale e space economy, si propongono di rafforzare il framework normativo di Industria 4.0 per sostenere in maniera più adeguata la crescita delle piccole e medie imprese. Anche qui però nessuna cifra precisa sugli investimenti.
Sul punto poche e vaghe sono le proposte nel programma elettorale del movimento guidato da Giuseppe Conte, il quale peraltro non ha propriamente nel sistema industriale il suo focus. C’è in compenso una sezione dedicata alle imprese dove si parla di “potenziamento e stabilizzazione decennale di transizione 4.0”, grazie a un’estensione del sistema dei crediti d’imposta sperimentati con il superbonus 110% e, nella sezione dedicata all’agricoltura, di un non meglio definito potenziamento del piano Transizione 4.0 che aumenti gli investimenti per il settore agricolo.
Una volta, nostalgia canaglia che ti attanaglia l’animo!, avremmo tutti scatenato polemiche per la sua non-presenza, ma è indicativo che oggi l’ex anima operaista della sinistra formata da Verdi e Sinistra Italiana neppure citi esplicitamente il tema. I resti di quel che fu un glorioso esercito popolare parlano nebulosamente della digitalizzazione, definita “un processo serio e profondo da non affrontare con interventi propagandistici o estemporanei”, ma neppure accennano al fondo Industria 4.0. Meno meraviglia che il tema sia affrontato di striscio nel programma elettorale del partito guidato da Emma Bonino dove comunque si legge di investimenti nelle tecnologie digitali e di accelerare sull’infrastrutturazione delle reti 5G, che andrebbero ad aiutare lo sviluppo dell’industria. Neanche il partito di Giuseppe Civati, anch’egli non propriamente di stampo liberista, cita il tema pur proponendo l’istituzione di un Osservatorio unico nazionale sulle agevolazioni che coordini le misure di agevolazione fiscale per le imprese, tra cui anche industria 4.0. Altrettanto silenziosa sul punto risulta Unione Popolare: a chi fosse ne fosse sfuggita la presenza si tratta del partito guidato da Luigi De Magistris.
Una volta alla Rai avrebbero detto: elettori informati elettori responsabili. Noi più beceri ci limitiamo a un tristanzuolo “arrangiatevi, noi vi abbiamo avvisato”!
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