Il primo giorno della convention repubblicana è stato dedicato ai temi economici. Il programma repubblicano, approvato formalmente il 15 luglio, è dedicato “agli uomini e alle donne d’America dimenticati”. Dopo il preambolo, “il ritorno al buon senso”, al primo punto troviamo “sconfiggere l’inflazione, e far scendere velocemente tutti i prezzi” e la prima azione citata per conseguire questo obiettivo è la fine “di ogni restrizione sulla produzione di energia americana” e del “green new deal socialista”. Qualsiasi equivoco viene chiarito nel terzo punto dedicato alla ricostruzione dell’economia americana: “(i repubblicani) termineranno le restrizioni su petrolio, gas naturale e carbone” per abbassare i costi energetici anche sotto i livelli della prima presidenza Trump.
Rimaniamo sulla lotta all’inflazione: fine degli sprechi statali, fine dell’immigrazione illegale che fa aumentare la spesa per educazione, casa e sanità e soprattutto impegno per la stabilità globale perché la “guerra alimenta l’inflazione”, mentre ridurre i rischi politici abbassa i prezzi delle materie prime. La politica internazionale include nel suo orizzonte i riflessi economici sui consumatori e le famiglie. I repubblicani si impegnano, nel decimo punto del programma, a “ristabilire la pace in Europa”.
Per costruire la “migliore economia della storia” i repubblicani dichiarano di volere rendere permanenti i tagli fiscali di Trump, di ribilanciare i rapporti commerciali e di rimpatriare le catene di fornitura e infine avere energia abbondante, affidabile e economica. Gli Stati Uniti per “diventare una superpotenza manifatturiera” ricorrono a tutti i mezzi disponibili: dazi commerciali, indipendenza strategica dalla Cina, politiche per “comprare americano e assumere americano” e rifiuto di sobbarcarsi i costi della transizione energetica e di fonti energetiche intermittenti e non programmabili. Il riequilibrio dei rapporti commerciali, con gli Stati Uniti in costante deficit commerciale, non può poggiare su basi solide senza uno sforzo, fiscale ed energetico ma non solo, per recuperare competitività.
L’Europa appare come un soggetto particolarmente fragile perché vive di surplus commerciali e perché ha deciso di sobbarcarsi i costi della transizione e soprattutto di coinvolgere in questo disegno i propri cittadini: tasse sulla CO2, fine del motore a combustione, incentivi miliardari alle rinnovabili, vincoli energetici sulle case. Anche la politica estera europea non sembra voler includere gli effetti che essa produce sui suoi consumatori. È inevitabile chiedersi come possa competere l’industria europea contro partner commerciali, non solo americani, che decidono di non avere preclusioni “ideologiche” sugli idrocarburi piuttosto che sul nucleare o la geopolitica.
I repubblicani dichiarano la lotta agli sprechi ma allo stesso tempo confermano i tagli fiscali, la spesa per la difesa e ribadiscono il supporto al programma “Medicare”. Il deficit americano, con queste premesse, difficilmente potrà rientrare e questo significa più concorrenza per i risparmi dei cittadini, tassi di interesse più alti e più inflazione per il resto del mondo. Il partito di Trump si oppone alle restrizioni contro i Bitcoin e all’introduzione di una moneta digitale stampata dalla banca centrale.
L’Europa non può resistere all’impatto di questa nuova possibile America senza un cambio di strategia profonda; non può difendersi da un’America decisa a diventare una superpotenza manifatturiera e a riequilibrare i rapporti commerciali dentro lo schema energetico e geopolitico attuale. Lo potrebbe fare solo chiudendosi e rispondendo con dazi commerciali uguali e contrari ma senza avere la stessa flessibilità geopolitica americana e senza possedere risorse naturali minimamente comparabili e dentro i costi imposti dalla transizione. Se l’Europa decidesse di chiudersi i costi imposti a famiglie e consumatori, sotto forma di rialzi dei prezzi, sarebbero colossali e l’esigenza di trovare forme di “socializzazione” dei costi diventerebbe inevitabile.
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