Non è obbligatorio che la “scuola di Bologna” – la segretaria del Pd Elly Schlein, l’ex presidente della Commissione Ue Romano Prodi e anche il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei – prendano posizione sulla condanna (amministrativa) del direttore generale della Sanità nella Regione Lombardia, Carlo Lucchina, sul caso di Eluana Englaro. Tanto meno prima del voto europeo del prossimo fine settimana, quando milioni di italiani andranno comunque alle urne “richiamati” in tempo reale dalla Corte dei Conti a considerare un illecito le “concezioni” in materia di fine vita di un alto dirigente pubblico nominato da un’amministrazione democraticamente eletta nella Regione più avanzata del sistema-Paese. Un governo locale di centrodestra (come oggi) guidato allora da un politico cattolico, dichiaratamente e coerentemente “pro-life”. Ma essere cattolici (in quanto tali) pro-life – secondo la Corte dei conti – è una “concezione personale del diritto alla salute” da punire e stroncare (anche se ad opporvisi non era una legge, ma l’Avvocatura della Regione Lombardia).
L’occasione sembrerebbe invece propizia per fare chiarezza – anzitutto da parte della “scuola di Bologna” – su una questione altamente politica, alla vigilia di un voto nazionale. Come la pensa la segretaria del Pd – capolista per le europee – sull’eutanasia, soprattutto quella eventualmente decisa da un genitore su una figlia nella condizioni di Eluana? È o no uno dei tanti “diritti” per cui il centrosinistra (cattodem compresi) si batte “senza se e senza ma”? È o non è un limite che un leader politico cattolico (“adulto”) non può pensare di varcare nemmeno se è in gioco “l’ultimo maledetto voto”?
Nessuno, neppure nel centrodestra, si azzarderebbe a considerare reato un’opinione chiaramente fatta propria da un partito in una piattaforma politica. Quello che invece è sempre un “reato civile” grave è il silenzio opaco e ambiguo. Lo stesso che, ad esempio, viene ritorto nella vigilia elettorale da dentro il Pd contro Marco Tarquinio: il giornalista cattolico che non ha avuto paura di invocare trasparentemente la pace in Ucraina e perfino lo scioglimento della Nato. “La linea del Pd non la decide lui”, ha replicato Lucia Annunziata, ex direttore come Tarquinio, lei pure candidata per Strasburgo nelle stesse liste dem. Già: ma quale linea ha il Pd sull’Ucraina e su tutto il resto? Per la stessa ex presidente Rai, il conflitto russo-ucraino è rilevante essenzialmente perché può distogliere l’attenzione dai problemi del Sud italiano chiamato a votarla. Ma una pronuncia netta a favore della Nato o dell’intervento israeliano a Gaza – oppure contro – si fatica tuttora a trovarla. Meno che mai, quindi, una giornalista-pasdaran del primo Ulivo si avventurerebbe a sfidare i vescovi dei suoi collegi elettorali applaudendo alla condanna di un medico che si è rifiutato di togliere i supporti vitali a un essere umano non cosciente.
Nell’agenda della “scuola di Bologna” emerge intanto un solo no secco e prioritario: quello alla riforma del premierato, tema squisitamente istituzionale, lontanissimo da ogni emergenza socioeconomica o “valoriale”. Ma è comprensibile: dopo un decennio di governo di fatto – tutt’altro che “democratico” – il Pd può accusare se stesso di non aver affrontato i problemi degli italiani? Soprattutto: può non giudicare come prima emergenza la difesa del Quirinale, residua posizione di potere del centrosinistra?
La presidenza “semipresidenziale” di Sergio Mattarella resta fra l’altro l’ultimo punto di leva disponibile per eventuali nuovi “ribaltoni” dopo il voto europeo, come cinque anni fa. Un sogno talmente poco celato che Prodi – sullo stesso column del Messaggero in cui nel 2019 lanciò il “governo Orsola” – è giunto a quasi scaricare la presidente (cristiano-popolare) della Commissione Ue, candidata per un secondo mandato (attraverso il voto di 400 milioni di europei, non dei giochi di palazzo che portarono Prodi a Bruxelles). Il “reato” (il “peccato mortale”) di Ursula von der Leyen – a suo tempo santa redentrice di Giuseppe Conte da Primo a Secondo – è l’aver avviato un confronto politico con Giorgia Meloni, da due anni premier di uno dei tre maggiori Paesi Ue, nonché leader politica di ECR.
“Orsola” vorrebbe agganciare il partito dei conservatori europei – in netta ascesa nei sondaggi – per dare forza e stabilità a una “grande coalizione” europea con popolari, liberali e socialdemocratici. Compito certamente improbo in un’Europa in cui Renew (la centrale europea dei liberaldemocratici macroniani) vorrebbe espellere VVD, il partito liberale olandese di Mark Rutte, per 11 anni premier di un Paese fondatore della UE, serio candidato alla poltrona di presidente della Commissione se nel frattempo non si fosse avvicinato a quella di segretario generale della NATO (con l’appoggio dell’Italia di Meloni). Il “reato” imputato ai liberali olandesi è quello di aver accettato di entrare in una maggioranza di governo guidata dal Partito della Libertà, di destra conservatrice, netto vincitore delle ultime elezioni – democratiche – in Olanda. È uno dei tanti “reati” imputati anche a Meloni: l’aver accolto in ECR Fidesz, il partito del premier ungherese Viktor Orbán, quattro volte premier eletto (e supporter di von der Leyen), che nel marzo scorso ha lasciato il PPE.
Chissà cosa ne pensa la “Scuola di Bologna”. Della sentenza Lucchina. O della nuova Europa “premierale” dell’ex “Sant’Orsola”.
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