Ad aprire la discussione è stata Giorgia Meloni nella conferenza stampa di inizio anno, quando ha detto di essere ancora incerta se candidarsi o no alle elezioni europee. “Lo decideremo insieme con gli altri leader del centrodestra e devo prima assicurarmi che non tolga troppo tempo al mio lavoro da presidente del Consiglio”, ha detto. Posizione formalmente attendista, tuttavia è chiaro che la premier non vuole tirarsi indietro. Tant’è vero, ha poi aggiunto, che “il misurarsi con il consenso sarebbe una cosa utile e interessante” e diventerebbe “un test di altissimo livello” se altri leader di opposizione decidessero di accettare il guanto di sfida. Messaggio per Tajani e Salvini da una parte, e per Elly Schlein dall’altra.
A reagire per primo è stato Antonio Tajani, che in un’intervista uscita domenica ha scelto – apparentemente – di mettersi in attesa degli eventi. “O corriamo tutti oppure è meglio che non lo faccia nessuno”, ha detto. Una scelta tattica: Tajani ha già fatto cinque legislature in Europa, è stato presidente dell’Europarlamento e guida il partito più europeista del governo italiano, per giunta aderente al maggiore raggruppamento, cioè il PPE. Correrebbe più che volentieri, ansioso di corroborare con il consenso la sua leadership in un’elezione che si preannuncia con il vento in poppa per Forza Italia. Però Tajani è vicepremier e ministro degli Esteri, avrà compiti importanti in questo 2024 in cui l’Italia guiderà il G7, e non dovrebbe farsi distrarre dalla campagna elettorale. Tante ragioni per candidarsi e altrettante per starsene fuori: perciò è meglio per il momento rimanere alla finestra, calciando la palla nel torello dei leader di governo.
Chi ha scompigliato le carte è stato Matteo Salvini, che alla trasmissione di Nicola Porro su Canale 5 ha spiazzato Meloni e Tajani dichiarando chiaro e tondo che nelle liste elettorali europee non ci sarà il suo nome: “Resto a fare il ministro delle Infrastrutture, ho tanto lavoro da fare. Se Meloni e Tajani vogliono candidarsi sono liberi di farlo”. Ha invece detto che gli piacerebbe candidare il generale Roberto Vannacci. In base alle chiacchiere interne alla Lega, altre personalità forti sarebbero Luca Palamara, l’ex magistrato – anch’egli un espulso – che ha denunciato il “Sistema” di potere e di spartizioni che vigeva (e verosimilmente perdura) nell’apparato che amministra la giustizia e, nel Nordest, il sogno proibito di Salvini è quello di convincere Luca Zaia a scendere in campo. Il Doge di Treviso dovrebbe tirare la volata al partito, forte delle 500mila preferenze che porterebbe in dote. Un “sacrificio” importante e inusuale per la sua storia politica, ma che sarebbe ricompensato con una exit strategy prestigiosa: un ruolo di Governo o la presidenza del Coni, sempre che non gli venga concesso un quarto mandato in Veneto, ipotesi da lui graditissima ma quasi impossibile.
Il vicepremier leghista ha precisato ieri di non avere comunicato preventivamente alla presidente del Consiglio la sua decisione. Senza di lui non dovrebbe candidarsi neppure Tajani, mentre è già saltato lo schema della Meloni secondo cui i leader del centrodestra avrebbero dovuto decidere assieme se scendere in campo o no. In questo modo Salvini si tiene alla larga da un’eventuale prova deludente della Lega nelle urne, aumentando però la propria libertà di manovra in campagna elettorale. Ma soprattutto si concentra nella trattativa per le candidature regionali (Abruzzo, Basilicata, Piemonte, Sardegna e Umbria), terreno molto accidentato benché le cinque regioni siano guidate dal centrodestra e i presidenti siano tutti al primo mandato, quindi rieleggibili. Primo banco di prova per la solidità della coalizione è la Sardegna, dove si vota a fine febbraio: il governatore in carica è il leghista Solinas, ma Fratelli d’Italia ha già lanciato il sindaco di Cagliari Paolo Truzzu. E il tempo stringe.
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