Si stanno delineando sempre più come uno scontro fra leader le prossime elezioni europee 2024, ma non è affatto detto che sia una buona notizia. Schlein contro Meloni, Tajani contro Renzi, e chi più ne ha più ne metta. La rasoiata definitiva, assolutamente bipartisan, l’ha assestata Romano Prodi: queste candidature sono “una ferita alla democrazia”. Perché – si è polemicamente chiesto l’ex premier – dobbiamo votare una persona che se vince di sicuro, poi non va in Europa? E ha concluso: non è questo il modo di sostenere che la democrazia è un sistema al servizio del popolo.



Il vecchio economista bolognese lamenta che non gli da retta più nessuno. Ma è vero solo in parte. L’unico che si è chiamato fuori dalla corsa dei leader alla candidatura è Matteo Salvini. Il leader del Carroccio ha escluso di correre ancor prima del voto in Sardegna del 25 febbraio scorso per dedicarsi a tre partite. Una è l’attività di Governo, le due restanti sono politico-elettorali. Di queste, la prima è la gestione, non facile, della candidatura del generale Roberto Vannacci, ancora formalmente incerta. La seconda è la conclusione della stagione congressuale del partito (che finora ha visto il segretario vincere ovunque, Veneto compreso).



Per tutti gli altri il tentativo è quello di far correre il più possibile il proprio simbolo. Lo è anche per la Meloni, che ufficialmente non ha ancora sciolto la riserva sulla candidatura, ma per la quale in pochi dubitano che ci sarà, specie dopo il forfait annunciato dalla sorella Arianna. Anche per la premier urge trainare il partito, che nei sondaggi appare nelle ultime settimane un po’ appannato. Per Tajani, invece, si tratta di cristallizzare nel consenso il momento magico che Forza Italia sta vivendo, e su cui nessuno avrebbe scommesso dieci mesi fa, alla scomparsa di Silvio Berlusconi.



Tutto sommato, però Giorgia Meloni ha molto meno da perdere rispetto a Elly Schlein. Fratelli d’Italia potrebbe pure perdere qualche decimale, ma non sono in discussione né il suo ruolo nel partito, né – tantomeno – quello di leader del centrodestra e del governo. Si tratta solo di consolidare la posizione, e conquistare più consenso possibile, da far pesare poi sul versante europeo, dove per i Conservatori europei (di cui FdI fa parte e la Meloni è leader) la partita sarà delicatissima.

Assai più spericolata appare la sfida della segretaria del Pd. Stretta fra Conte e Meloni, la Schlein ha scelto di candidarsi per tentare di ricompattare un partito appannato e diviso. Quanto sia complicata la situazione interna viene dimostrato dal fatto che l’annuncio della sua discesa in campo non è stata affatto accolta da un applauso corale. Ha, al contrario, innescato una nuova polemica, quella sull’opportunità o meno della presenza del suo nome nel simbolo. Un artificio frequente in tempi di personalizzazione della politica, ma che in casa Pd ha ben pochi precedenti, praticamente solo Veltroni. E non portò neppure benissimo.

Il guaio è che questa corsa a candidarsi da parte di leaders che poi rinunceranno al seggio a Strasburgo dimostra sopra ogni altra considerazione quanto poco conti il parlamento europeo agli occhi dei partiti italiani. Candidature “civetta” dei leaders, oppure nomi acchiappa-voti dalla società civile. Da Ilaria Salis per AVS a Cecilia Strada e Lucia Annunziata per il Pd, sino alla ex calciatrice Carolina Morace per M5s e al generale Vannacci, probabilissimo per la Lega. Non è il massimo per un’assise parlamentare destinata a contare sempre di più, dove si pesa solo in base alla costante presenza ai lavori di assemblea e di commissione, e al saper padroneggiare tecnicismi regolamentari davvero complessi. Negli altri Paesi candidature tanto folkloristiche come quelle in voga in Italia sono sparute eccezioni: a Strasburgo si mandano persone in grado di farsi valere. Soprattutto si candida solamente chi è destinato a rimanere, non a optare per il parlamento nazionale.

Quella che comincerà con il voto del 9 giugno sarà la decima legislatura elettiva per l’Eurocamera, dalla prima del 1979. Forse sarebbe il tempo, anche per i partiti, di candidare chi possa rappresentare al meglio il nostro Paese. Senza usare il voto europeo come una sorta di mega-sondaggio da spendere poi esclusivamente sul piano della politica interna. Altrove funziona così, l’eccezione siamo noi.

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