Si possono vedere tante ragioni dietro la scelta di Giorgia Meloni di guidare le liste di Fratelli d’Italia alle elezioni europee dell’8 e 9 giugno, e non tutte immediatamente percepibili. Scelta scontata da tempo quella annunciata ieri dal palco di Pescara, e che non si può certo liquidare come una risposta a Elly Schlein. Perché la Meloni avrebbe corso comunque, qualunque decisione avesse preso la leader democratica. Certo, lo scontro tutto al femminile ci sarà, ma in esso la premier parte in netto vantaggio. Se infatti la Schlein si gioca il tutto per tutto, e con un cattivo risultato potrebbe dover lasciare la guida del Pd, Meloni rischia meno, ma non è detto che riesca a raggiungere tutti gli obiettivi che si è prefissata.
Di sicuro gli strali di Romano Prodi contro le candidature da parte di chi sicuramente rinuncerà al seggio a Strasburgo non l’hanno scalfita. E, del resto, non hanno fermato né le due leader donne, né Tajani o Calenda. Solo Salvini e Conte hanno scelto di non candidarsi.
Nella chiave di un maxi-sondaggio a uso interno, per Meloni quindi il primo obiettivo è consolidare la prima posizione di Fratelli d’Italia fra i partiti italiani, dando una spinta in più a un consenso che appare un po’ appannato dalla fatica dell’azione di governo, anche se non certo in crisi. Non a caso l’asticella del risultato è stata abbassata al 26% delle politiche, vedendo nei sondaggi allontanarsi quel 30% che qualche mese fa sembrava a portata di mano. Ridimensionando le aspettative, e con il traino del suo nome, la premier conta di poter cantare facilmente vittoria.
In questo modo, poi, le sarà agevole confermare la propria leadership nel centrodestra. Non che qualcuno gliela stia insidiando, ma una posizione di forza le consentirà di gestire con maggior disinvoltura gli alleati di governo, Salvini e Tajani, dove il primo, eurocritico, è molto più sospetto – visto dalla Meloni – del secondo. Non a caso alla kermesse pescarese Tajani c’era, il leghista ha inviato solo un videomessaggio.
Fin qui abbiamo analizzato le ragioni di politica interna che probabilmente stanno dietro la decisione di Meloni di mettere in gioco il suo nome alle europee. Sono le più ovvie, ma non le uniche. Con ogni probabilità ha pesato anche la volontà di conseguire il massimo consenso possibile, da spendere poi fra Bruxelles e Strasburgo. Perché mentre sul piano internazionale la premier dimostra di sapersi muovere bene, l’Europa è rimasto il terreno più scivoloso, anche dopo 555 giorni a Palazzo Chigi. L’Italia rimane una sorvegliata speciale, e se sin qui non è stata messa all’angolo, è soprattutto grazie al rapporto personale privilegiato creatosi fra la Meloni e Ursula von der Leyen. La presidente del Consiglio ha coltivato a lungo la speranza che i voti dei Conservatori (di cui è leader continentale) potessero essere determinanti per la riconferma dell’amica tedesca alla guida della Commissione. Non a caso ECR non ha presentato alcuno spitzenkandidat, alcun candidato di bandiera per quell’incarico.
C’è stato però un recupero della maggioranza che ha sin qui sostenuto von der Leyen: oggi appare probabile che i socialisti del PSE, i popolari del PPE e i Liberali possano continuare a spartirsi gli incarichi europei di vertice, senza aver bisogno dei Conservatori (o dei Verdi). E ancor meno probabile appare l’eventualità che vi siano i numeri per una maggioranza di centrodestra (PPE, Liberali e Conservatori), mentre verso il gruppo Identità e Democrazia vige l’esclusione pregiudiziale.
Ecco allora il tentativo, da parte di Meloni, di pesare il più possibile per non condannarsi all’irrilevanza. Dopo le europee, infatti, verrà il momento della verità per molte partite, fra cui il ritorno al Patto di stabilità appena riscritto, e per l’Italia potrebbero essere dolori. Se due delle tre forze che sostengono il governo italiano fossero escluse dalla stanza dei bottoni europea, trattare sarebbe molto più difficile, pure su un portafoglio non residuale dentro la nuova Commissione. A Palazzo Chigi nessuno crede all’ipotesi Draghi, perché vorrebbe dire rinunciare a essere rappresentati dentro l’esecutivo comunitario, dove ogni Paese ha un solo seggio. Ma se la candidatura di von der Leyen dovesse tramontare (e ve ne sono diversi segnali), Meloni avrebbe puntato sul cavallo sbagliato. E il quadro europeo continuerebbe ad essere il tallone d’Achille di un governo che, altrimenti, pare destinato a durare a lungo.
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