In una sorta di assoluto silenzio dei mass media e dei social network si è tenuto giovedì un confronto tra i candidati presidenti della Commissione alle elezioni-burla del Parlamento europeo. Nella stessa conferenza di Fiesole, dove si è svolto il confronto, il ministro degli Esteri italiano ha pronunciato un discorso molto importante, che proprio per questo è stato in qualche misura oscurato dai mass media.



Come uno dei primi borsisti dell’Università di Fiesole, quando rettore era il grande Rosario Romeo, non ho potuto, da vecchio professore studioso dei dilemmi europei, non seguire con attenzione il convegno. Mi ha colpito questa reiterazione di un appuntamento politico in una università creata dalla tecnocrazia europea per promuovere un ambiente idoneo a creare quelli che io chiamo, con poco senso delle opportunità, i “bimbi lego”, pronti a intervenire nel gioco democratico per sostituire i leader della classe politica nazionale perdente se quest’ultima non riesce più a esprimere dal suo seno leader capaci di presentarsi alle elezioni. È stato il caso prima di Mario Segni, poi di Mario Monti, con l’intermezzo del “bimbo lego” essenziale per comprendere come va il potere in Italia: Romano Prodi, grande bimbo lego a livello internazionale e che ha stimolato una serie di studi di grande interesse.



A Fiesole, il nostro ministro degli Esteri ha reso evidenti ipotesi giuste, ma è stato stupefacente udirle in quella sede, nella dilagante mediocrità europeista o sovranista (i lettori sanno che io non condivido la definizione scientifica né dei sovranisti né degli europeisti, ma lasciatemi passare questa superficialità analitica). Ascoltiamolo.

“Convinti di essere sulla cresta dell’onda, si lavorava alla fine degli anni 80 per coronare il mercato unico, con una moneta unica. Tema divisivo, sensibile: perché tocca il profondo della sovranità e i delicati equilibri del difforme stato di salute dei conti pubblici e delle economie dei vari paesi, nonché dei rischi attinenti che si ripercuotono sulla nuova moneta. Opera già di per sé, ardua. Per di più, la caduta del muro di Berlino, nel 1989, e della ‘cortina di ferro’, cambia la storia e la geografia politica europea. È la fine del mondo diviso in due blocchi. I confini potenziali delle Comunità europee si ampliano verso est. Nuovi Stati entreranno, tanti con il loro bagaglio peculiare di una ‘sovranità’ riconquistata, meno disposti a condividerla. Il dialogo fra governi si fa più complesso e lo sarà sempre di più. L’integrazione europea si avvia, allora, a compiere 40 anni, la realtà è radicalmente mutata: occorrerebbe un’incisiva riforma delle sue istituzioni, che non viene intrapresa. Contribuiscono: le differenze vivaci fra i governi nazionali, le reazioni al cosiddetto centralismo della Commissione (al ‘super-Stato europeo’), la sottovalutazione degli eventi, l’inerziale tendenza al rinvio degli apparati”.



Moavero ha poi proseguito spiegando che

“a causa delle forti divergenze sulla moneta unica, con il Trattato di Maastricht si inaugura la stagione delle deroghe (‘opting-out’), permettendo agli Stati non favorevoli di non partecipare a una politica europea. Si dà vita all’Europa ‘a più velocità’. Meglio così che non firmare, si dice, ma è un precedente pesante. Peraltro, per la prima volta, una riforma dei Trattati europei è respinta dal voto di un referendum. Il ‘no’ danese è una brusca sveglia per l’illusione del consenso e del sostegno democratico. Analogo segnale arriva dal risicato ‘sì’ al referendum francese. Le ‘geometrie variabili’ iniziano a caratterizzare il processo d’integrazione europea. Esempi eclatanti: l’adesione al ‘sistema Schengen’ di circolazione delle persone senza controlli alle frontiere; l’applicazione per via giudiziale della Carta dei diritti fondamentali di Nizza del 2000. Anche la Commissione cambia il suo approccio. Dagli anni 2000, si ha una netta riduzione delle proposte legislative presentate e il parallelo aumento delle iniziative affidate a un’azione decentrata, con più ruolo per gli Stati membri. L’azione comune europea smette di sostituire quelle nazionali, per affidarsi e/o affiancarsi a esse. I risultati sono ben scarsi. Il mesto esempio è la cosiddetta ‘Strategia di Lisbona’ (2000), che avrebbe dovuto portare l’Ue a diventare la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010. Anche il Seae (Servizio europeo per l’azione esterna), creato dal Trattato di Lisbona (2007), operativo dal 2010, anziché sostituire le diplomazie nazionali, le affianca, senza una ben definita ripartizione di compiti, creando una sorta di duplicazione di ruolo e costi di dubbia utilità. Sintomatico di una politica estera comune, in buona sostanza, inefficace o inesistente. A poco aiutano le successive riforme dei Trattati. In soli 10 anni, ben tre (Amsterdam 1997, Nizza 2001, Lisbona 2007) – oltre al trattato costituzionale (2004) bocciato con i referendum di Francia e Paesi Bassi nel 2005 – che però non riescono a imprimere una vera svolta agli assetti istituzionali dell’Ue, pur incrementando – cosa positiva per la democrazia – costantemente il ruolo legislativo del Parlamento europeo e il voto a maggioranza al Consiglio; nonché le politiche comuni. Mentre l’Europa procede a rilento, il mondo cambia. Negli ultimi vent’anni, la globalizzazione commerciale, economica e finanziaria, amplificata dalle nuove tecnologie di comunicazione, vede l’economia europea marginalizzarsi rispetto all’espansione in atto. Svariati paesi non europei presentano delle economie in impetuosa crescita e/o enormi disponibilità finanziarie: producono, vendono, acquistano, investono, riescono a sviluppare tecnologie chiave, dove l’Europa non è affatto all’avanguardia e, anzi, dipende sempre più dall’esterno. Per il 2040, le proiezioni dicono che nessuno Stato europeo sarà fra le prime sette economie del pianeta (fino a 15 anni fa, ce ne erano ben 4). Arrivano i problemi più recenti: la crisi economica e finanziaria globale e gli epocali flussi migratori. Rispetto a entrambe, l’azione carente dell’Unione è sotto gli occhi di tutti. Per trovare una strategia di uscita dalla crisi economica, si procede con lentezza e fra divisioni incomprensibili ai cittadini. Molto di quanto convenuto non è stato ancora attuato e resta un’eredità perniciosa di asimmetrie accentuate all’interno dell’Unione. Di fronte alle migrazioni va peggio: divisioni nette, norme vigenti inadeguate, mancanza di volontà dei governi di avere una vera politica europea in materia (e la base giuridica nel Trattato c’è). Penso che l’Europa possa avere successo solo: se individua obiettivi in sintonia con le aspettative dei cittadini e ben spiegabili ai medesimi, per amalgamare le ineludibili differenze di opinione; e se li garantisce con un calendario di azioni precise e concrete, nel quadro di linee definite di ripartizione delle competenze tra Unione e Stati. Lo indica Alcide De Gasperi, nel lontano 1951 (discorso davanti all’Assemblea del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 10 dicembre 1951), ‘in nessun momento bisogna agire e costruire in maniera che il fine da raggiungere non risulti chiaro, determinato e garantito’. Senza concretezza e comprensione arriva la disaffezione dei cittadini che non comprendono le alchimie europee, né la peculiare, incompleta architettura istituzionale dell’Unione (peraltro, alquanto ostica anche a chi crede di conoscerla)”.

Queste affermazioni non sono di Sapelli o di Alessandro Mangia o dei pochi che pensano di dover continuare a pensare, nonostante i mucchi di dollari offerti per diventare “bimbi lego”. Per questo ho voluto limitarmi a trascrivere ciò che ci dice un nobile esponente della nuova aristocrazia non di lignaggio ma di nomina mista tra politica e competenze nazionali dell’Ue.

Il giudizio lo lascio ai lettori. Meditate.