La storia di questa Europa comincia con la costituzione della Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio (1952) – una scelta politica – e ha visto uno dei momenti massimi negli anni 80 con la commissione Delors, che ha sviluppato il concetto di “mercato unico europeo”. Proprio la vicenda Brexit prova che il Mercato unico europeo non è un supermarket delle transazioni commerciali di cui si può partecipare senza condividere le caratteristiche di un vero e proprio ecosistema fatto di regole comuni e standard, frutto di faticosi accordi e meticolose ricerche, diritti dei consumatori, protezione delle identità nazionali e rispetto dei lavoratori. 

Il progetto europeista è spesso però accusato di aver rinnegato la propria base valoriale, ma i vantaggi economici dell’esperienza europea sono stati determinanti per il progetto politico quanto quelli ideali di democrazia e libertà. Proprio perché l’Unione Europea è un progetto politico, quindi anzitutto uno strumento di prosperità e convenienze, non può eludere la sfida dei numeri. 

Prendiamo in considerazione il progressivo atteggiamento dell’amministrazione statunitense nei confronti di questo sviluppo del contesto europeo. Quaranta giorni fa l’amministrazione Trump ha notificato al rappresentante dell’Ue a Washington un nuovo meccanismo procedurale del cerimoniale della Casa Bianca, che impedirà, di fatto, al rappresentante dell’Ue di partecipare ad alcuni momenti cruciali della vita di Washington perché l’amministrazione Trump ha sostanzialmente contestato la natura della statualità europea e ha detto: “Non siete una federazione di Stati come noi, non siete una confederazione come la Svizzera (dove c’è una forte concentrazione, sul piano cantonale, di una serie di questioni, ma rimangono dimensioni federali importanti), non siete uno Stato sovrano perché comunque non siete il super Stato che molti immaginano che voi possiate essere”.

Quindi, sostanzialmente, nel rapporto di carattere diplomatico, il downgrade delle rappresentanze delle istituzioni europee è giustificato e come tale è stato notificato. La reazione ufficiale da parte delle istituzioni europee è stata quella di non prendere atto di una cosa così rilevante. 

Pertanto il fattore politico è fondamentale per dare una visione al progetto europeo; infatti uno dei problemi dell’illusione del “grande Paese competitivo” è il fatto che la competitività dei singoli Paesi si ha incidendo fortemente sulla leva dell’export e sottraendosi al compito, tutto di natura politica, di determinare nel tempo lo sviluppo di una domanda interna, caratteristica di un progetto coeso, e di darsi un assetto istituzionale che abbia delle dimensioni profonde che consentano lo sviluppo di ricerche in settori cruciali.

Se si prende ad esempio la difesa, ci troviamo davanti ad una situazione paradossale.

Gli europei sono preoccupati (come lo sono gli americani) del problema della difesa europea. Nel Mediterraneo navigano portaerei russe e cinesi; la portaerei americana della Sesta Flotta è dislocata a ridosso del Golfo di Aden per tenere d’occhio il conflitto del Golfo tra Iran e Arabia Saudita; c’è la portaerei italiana, bella ma con aerei antiquati; la portaerei francese è posizionata adesso nel Golfo di Guinea perché i francesi fanno da argine militare al dilagare del terrorismo jihadista a ridosso di Mali, Guinea e Niger. Gli inglesi hanno due portaerei che sono in via di rifacimento nei cantieri di Norfolk. La portaerei spagnola è in piena efficienza ma è molto piccola. È evidente che è difficile parlare di una politica militare europea.

Il senso di un passo avanti del progetto europeo passa attraverso questo esercizio: superare le contraddizioni attraverso sintesi originali. Non essendo maturato un progetto politico, si è delineato un contesto europeo senza regole federali in cui hanno inevitabilmente preso il sopravvento gli stati più forti. Chi era grande e grosso tra gli Stati membri si è preso più spazio. In questo periodo chi detta le regole del gioco sono Francia e Germania, in gergo Framania, facendo irritare le forze politiche sovraniste.

Riguardo all’ombrello Nato, entriamo nella ragione per cui c’è stato il downgrade: nella spesa mondiale per la difesa, fatta 100 la spesa, 50 sono gli americani. Qual è la preoccupazione americana? Che, mentre prima, nel restante 50%, il coefficiente europeo era comunque molto alto, adesso il 70% di quel coefficiente sono i cinesi. E da qui a due anni i cinesi potranno varare una portaerei più grande di tutte quelle americane. 

L’assunzione di responsabilità, quindi, non può eludere il tema politico o il tema di riforme istituzionali che realmente diano il senso necessario della storia, per superare il pessimismo. Noi l’abbiamo vissuto in modo molto diretto. Sono anni che ci muoviamo all’interno di istituzioni che dicono: “si può fare tutto, si può migliorare tutto, ma non ci sono le condizioni per riaprire la questione dei trattati”; la realtà è che non c’è sufficiente feeling politico. Non si ha il coraggio di fare un passo avanti verso un livello oggettivo di integrazione e tutto questo, inevitabilmente, ha ripercussioni sui vari sistemi-Paese e anche sulle realtà economiche più performanti. 

Ritornando alla questione Brexit, il commissario speciale Michel Barnier ha incontrato 25 giorni fa a Londonderry un gruppo di donne del nord Irlanda che gli hanno comunicato che i loro mariti, tutti militanti dell’Ira, sono spariti da oltre un mese. Se avete seguito le notizie di cronaca, non più di 15 giorni fa si sono verificate in Gran Bretagna alcune esplosioni di piccole bombe a bassa intensità, che non sono riconducibili al terrorismo di matrice islamista, e che sono un segnale politico molto chiaro. 

Il no deal non riesce a recuperare gli accordi del venerdì santo, cioè quel momento della storia europea in cui, pur rimanendo cittadino di Sua Maestà britannica, chi si era speso nello scontro tra militanti dell’Ira e forze armate britanniche aveva comunque accettato la prospettiva europea, che avrebbe tolto il problema del confine fisico e doganale tra Irlanda del Nord e resto d’Irlanda. L’Ira aveva smesso di combattere contro i britannici con la garanzia che non sarebbero rimasti solo sudditi di Sua Maestà. Con la Brexit invece ritornerebbe un sistema doganale che li vincolerebbe con il Regno Unito, facendo così venire meno i presupposti di quell’accordo. Lo strumento democratico del referendum ha cioè innescato la dinamica storica pericolosa di uno stato sovrano che viene meno a patti che pure hanno garantito pace e sviluppo. Ma chi tra quelli che ha votato per uscire dall’Europa era cosciente che ciò potesse significare la ripresa delle ostilità nell’Ulster? Questo problema diventa insuperabile con il Brexit, che avrà una ricaduta immediata sulla prosperità di alcuni Paesi europei, oltre che della Gran Bretagna, e avrà una ricaduta sul contesto della pace, perché effettivamente ritorna a proporre all’interno del contesto europeo un elemento politicamente non trascurabile. 

Il grosso apporto proveniente dalla crescita classi medie nel resto del mondo ha una curiosa ricaduta che interloquisce con lo status attuale del progetto europeo, penso soprattutto ai paesi africani e a quelli dell’area sud del Mediterraneo, e al modello europeo per come non si è ancora realizzato. 

La tendenza forte che esprimono è avere modelli istituzionali (penso a quello che si cerca di realizzare con l’Unione Africana) che in qualche modo, richiamandosi al modello europeo, possano garantire loro quelle condizioni politiche che hanno consentito il nostro livello di sviluppo, di pace e di prosperità.