Indovinare in quale salotto televisivo si svolgerà il confronto fra Giorgia Meloni ed Elly Schlein è stato il gioco di società più in voga nel fine settimana dell’Epifania fra politici e giornalisti. Per ospitarlo si sono candidati un po’ tutti, da Bruno Vespa a Enrico Mentana, da Sky a Mediaset, sino alla pregiudiziale di genere (“tre donne, cambieremmo il mondo con una sola immagine”) di Myrta Merlino.
La disponibilità della premier al faccia a faccia con la leader democratica costituisce senza dubbio una delle novità emerse dalla chilometrica conferenza stampa di fine/inizio anno della Meloni. Perché, con quella sapiente nonchalance in cui eccelle, il presidente del Consiglio è sembrato a molti entrare a piedi uniti in uno dei temi che dividono maggiormente il campo delle opposizioni, chi sia cioè più titolato a guidarlo. Fra Schlein e Conte, che si contendono il ruolo in una lotta visibile e senza esclusione di colpi, ha compiuto una scelta netta. Ed è parso riduttivo ai più ricondurre il criterio di scelta al mero fattore numerico, al fatto cioè che secondo i sondaggi il Pd continua a godere di un consenso tuttora maggiore rispetto a M5s, anche se questo margine sembra assottigliarsi nelle ultime settimane. È chiaro, infatti, che saranno le prossime europee di giugno a definire la leadership dell’opposizione, con Conte e i suoi che nel sorpasso ci credono.
Perché, allora, scegliere con chiarezza la leader del Pd come sua avversaria diretta in questa fase? Difficile immaginare qualcosa di diverso dal retropensiero di una legittimazione offerta all’avversario giudicato più debole, aggiungendo, per soprammercato, una ulteriore ragione di divisione fra le due principali forze del campo avverso.
Fra Schlein e Conte ci sono pochi dubbi su chi sia il nemico più insidioso: l’ex premier ha ormai dimostrato di sapersi muovere con astuzia e spregiudicatezza. Sventola come sue bandiere esclusive due provvedimenti chiave dei suoi governi rivelatesi autentiche calamite di consenso, che per la Meloni sono fumo negli occhi, e cioè reddito di cittadinanza e superbonus edilizio. Poi, per tutto il resto sa adattarsi alle circostanze in modo quasi camaleontico. Sa anche giocare di sponda, come ha dimostrato nella complessa partita sulla Rai: quando ha capito che difendere lo status quo intorno a Fuortes era diventato impossibile ha sostanzialmente legittimato il nuovo corso, ricavandone un rilevante pacchetto di nomine per i suoi fedelissimi. Alla fine, in termini di posizioni di potere a Viale Mazzini, i grillini hanno perso molto meno rispetto ai democratici.
Per parte sua, Elly Schlein non conosce la stessa abilità di manovra. Ha meno temi da invocare come propri: il reddito minimo legale, ad esempio, non è un’esclusiva Pd. Alle spalle, per di più, ha un apparato pesante, fatto soprattutto di amministratori locali, di cui non ha il pieno controllo. Un apparato che non è disponibile a seguirla in evoluzioni spericolate in terreni poco confacenti alla storia complessa del partito, specie nel campo dei diritti individuali.
Per Schlein la designazione venuta dalla Meloni rappresenta quindi insieme un rischio e una opportunità. Il rischio di non essere all’altezza, e quindi di perdere consensi nei confronti di Conte, che del duello sarà il convitato di pietra. L’opportunità, al contrario, di imporre la propria figura e il proprio ruolo, non solo nel campo dell’opposizione.
Insomma, se e quando si farà, il faccia a faccia fra le due donne più in vista della politica italiana costituirà per la leader dem un autentico esame di maturità. Fra le due è senza dubbio la Schlein ad avere più da perdere. La Meloni, forte delle sue notevoli doti di polemista e del suo ruolo guadagnato sul campo, potrebbe sopravvivere anche ad una prova mediocre. Per la segretaria del Pd sarà, invece, una prova senza appello. Nella quale la bocciatura avrebbe pesanti conseguenze, prima ancora di quelle che potrebbero venire dalle urne la sera del 9 giugno.
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