Avviso ai naviganti del periglioso mare della politica italiana: per capire la posta in campo nelle prossime elezioni europee, autentico spartiacque della legislatura, non bisogna fare solo attenzione a chi prenderà più voti. Bisognerà tener d’occhio anche come questi consensi potranno essere usati. Perché serve a poco ottenere un buon risultato, se poi quei voti, tramutatisi in seggi, si rivelano totalmente ininfluenti. Vale per tutti l’esempio della Lega, che nel 2019, pur avendo il 34% e 29 seggi, si trovò all’opposizione della maggioranza europeista di von der Leyen, appoggiata anche da M5s.



Un rischio simile fa di tutto per evitarlo oggi Giorgia Meloni, oggi a capo del governo di uno dei tre grandi Paesi fondatori. La premier non può permettersi di rimanere a bordo campo, a guardare popolari e socialisti che si spartiscono gli incarichi della futura Commissione, e dettano le linee di sviluppo dell’Unione. Oggi, infatti, i Conservatori europei che Meloni guida sono all’opposizione dell’esecutivo comunitario guidato da Ursula von der Leyen, sostenuto da PPE, PSE e liberali.



Dopo le battute d’arresto in Spagna e Polonia dell’avanzata dei partiti di destra, Meloni ha dovuto prendere atto della impraticabilità dell’ipotesi di poter dare vita a una maggioranza in cui i voti dei conservatori potevano sostituire quelli dei socialisti. Nell’archiviare questo orizzonte, a lungo accarezzato, la premier ha potuto contare sul buon rapporto costruito con la presidente della Commissione. Una tessitura paziente, ma evidente, che ha visto la von der Leyen attirarsi spesso critiche per aver visto la Meloni con un occhio di riguardo. È un fatto che mai le istanze italiane in alcuni settori delicati, come il controllo dei flussi migratori, hanno trovato orecchie tanto attente a Bruxelles. Von der Leyen è stata anche in visita insieme a Meloni in Tunisia, e nei giorni scorsi a Roma per il vertice Italia-Africa, oltre che due volte nelle zone alluvionate dell’Emilia-Romagna.



Nei palazzi comunitari il sostegno della futura pattuglia di eurodeputati di Fratelli d’Italia, probabilmente folta, viene dato per praticamente acquisito alla prospettiva di un bis della politica tedesca al vertice della Commissione. Per von der Leyen sarebbe la dimostrazione di saper ampliare la propria base di consenso (nel 2019 la spuntò per un soffio, con tantissimi franchi tiratori fra chi sulla carta avrebbe dovuto sostenerla). E per Meloni – che anni fa chiedeva l’uscita dall’euro – si tratterebbe di entrare da europeista Doc nella “stanza dei bottoni” della UE.

Che si tratti di una sorta di “operazione di sistema” se ne sono accorti a un solo giorno di distanza due dei padri nobili del Pd, Romano Prodi e Giuliano Amato. Per il fondatore dell’Ulivo “la premier italiana sta diventando una sorta di polizza di assicurazione per Von der Leyen”. E per l’ex presidente della Corte costituzionale l’auspicio è che l’inclusione dei conservatori nella maggioranza che guida l’Europa sia oggi reso necessario dall’assottigliarsi dei numeri di popolari e socialisti, ma non sia stabile nel futuro. Il paradosso è che Schlein e Meloni finirebbero per votare la fiducia allo stesso esecutivo comunitario, insieme a Tajani, ai popolari, a Renzi e Calenda.

Chi andrà all’opposizione nell’Europarlamento è Salvini. Una situazione che potrebbe creare qualche fibrillazione nel Governo, che andrebbe spaccato al voto su Von der Leyen. Nel 2019, quando i 14 voti M5s furono probabilmente decisivi per la presidente della Commissione, il divaricarsi delle posizioni dentro il governo gialloverde fu l’inizio della fine. Oggi questo rischio appare più lontano: le redini del Governo sono saldamente nelle mani di Meloni. Che piaccia o non piaccia.

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