Tra Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen l’intesa appare sempre più cordiale. Lo testimonia la visita dell’altro giorno a Forlì, otto mesi dopo l’alluvione, dove la presidente del Consiglio e la leader della Commissione Ue si sono scambiate abbracci e sorrisi mostrando ai giornalisti in conferenza stampa che non si tratta di semplice cortesia istituzionale. Pare che anche nelle cancellerie europee si domandino il perché di questo avvicinamento, se è vero – come si leggeva ieri su Repubblica – che a Parigi e Berlino passando per Bruxelles si coverebbe qualche malumore. “Ma sta sempre in Italia?”, sarebbe la domanda che viene ripetuta sempre più spesso.
Secondo Repubblica, i partner europei temono che la von der Leyen, in vista del voto europeo, vada a sondare gli umori della destra. Più probabile che la presidente della Commissione stia attuando una strategia per “normalizzare” l’appoggio dell’Italia. Da un lato la fiducia a Mario Draghi, già incaricato di redigere un report sul futuro della competitività in Europa, potrebbe trasformarsi in una candidatura alla guida del Consiglio europeo, come da più parti si dice. Dall’altro, la fine dell’esperienza di Paolo Gentiloni come commissario Ue lo riporterebbe a Roma per puntellare il Pd, il partito che da sempre è il vero punto di riferimento delle burocrazie comunitarie ma che da mesi appare confuso sotto la gestione improvvisata di Elly Schlein.
Il feeling con la Meloni rappresenterebbe dunque il “terzo polo” di questa tattica. Del resto, sono lontani i tempi in cui la numero uno di Fratelli d’Italia minacciava l’uscita dall’Unione (“Se per stare nell’euro uccidiamo il Paese è meglio andarsene”, 2013) o proponeva di togliere dalla Costituzione i riferimenti all’Ue (2018). La sua parola d’ordine quando si insediò a Palazzo Chigi era stata “Vogliamo più Italia in Europa”. E proprio ieri si è saputo che il nuovo piano pandemico 2024-28 considera i vaccini “le misure preventive più efficaci” contro i contagi mentre “in condizioni emergenziali” può essere necessario “imporre limitazioni alle libertà dei singoli individui al fine di tutelare la salute della collettività”. Per le opposizioni non c’è nessuna differenza con quando al governo c’erano Conte e Speranza.
È l’ultimo esempio del progressivo cambio di approccio della Meloni rispetto all’Unione Europea, nella quale tende ormai a integrarsi. Già l’opposizione di Fratelli d’Italia a Draghi premier si iscriveva all’interno di un perimetro istituzionale, seguiva il canovaccio dei ruoli, senza mai trasgredirlo. A Bruxelles e Strasburgo il partito ECR, quello dei conservatori e riformisti di cui la Meloni è presidente, tiene saldamente le distanze dal Rassemblement National francese o da Alternativa per la Germania (AfD). Più che antieuropeo, ECR si muove per intervenire su Bruxelles dall’interno. Correzioni di rotta nell’ambito del sistema, non posizioni alternative. Perciò, benché si trovi su posizioni non certamente in linea con quelle dei popolari o dei liberaldemocratici, la Meloni sembra ormai pronta ad appoggiare il secondo mandato di von der Leyen. E sembrava rivolto anche a lei quel “Tin bòta” (tieni duro, in dialetto romagnolo) detto da von der Leyen a Forlì l’altro giorno.
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