Lui è seduto fermo, le gambe leggermente divaricate, i talloni piantati, i gomiti appoggiati sulle ginocchia; curvo, mi guarda da sotto, le mani sorreggono la fronte.
C’è tempo, ancora. Il travaglio è lento.
La mamma si mette di fianco e geme, l’uomo si alza, si appoggia al bordo del letto e, lento, si china, appoggia un bacio: ce la faremo, vedrai.
Dicono che partorire sia cosa da donne.
Ma io riconosco i padri che attendono, e fanno parte del parto, lo tengono come fosse di pane e ne fanno piccoli e lenti bocconi, sale e erbe amare.
Quando va tutto bene e le doglie si mettono a correre e le donne urlano e in piedi danzano traballando e spingendo, loro sorreggono, loro si stupiscono, loro sembra che mi chiedano scusa con gli occhi per l’animale femmina che si trovano a abbracciare; io sorrido. L’arte di sorridere al dolore.
Quando va tutto lento, quando i lamenti si trasformano in urla, anche nei loro visi si muovono gridi e c’è qualcuno che mi affonda: fate qualcosa! Non vedete che sta troppo male?
Poi ci sono magari i passi affrettati accanto alle barelle, si va in sala operatoria e non si può più tenersi per mano, non si può più confortare a bassa voce, bisogna solo starsene fuori: si aprono le porte a vetro, i figuranti vestiti di verde-azzurro chiudono il sipario e quello che investe lui, naufrago, è un maremoto, boccheggia solo a guardare il pavimento di linoleum e nemmeno può accendersi una sigaretta.
Finché accade.
Nasce.
Mio Dio è un miracolo. Guarda, mi disse una volta un uomo, prima non c’era, adesso è qui, è un bambino! Un attimo fa lei urlava e pareva morire. Adesso guardala: ride.
Era nella pancia, lo sapevo, ma adesso ce l’ho in braccio… mio figlio. Grazie.
È nato.
Amo prendermi cura dei padri; loro sono i primi a gridare “è qui, amore, bravissima, tesoro ce la fai!”, a loro appena posso dò in mano la forbice sterile e quando appoggio il bimbo sulla pancia di lei prendo le loro mani, le fermo sul corpicino avvolto nel telo asciutto e raccomando: tienilo forte, che non le cada. Tienili tutti e due.
Le mani di Dio su di lui, Giuseppe, quella notte.
Tienili tutti e Due.
Assolutamente agitato ma tentando di non darlo a vedere: dove porto il mio asino e il suo carico stanco… “Maria già trascolora, divinamente affranta…” (G. Gozzano, La notte santa). Tienili in sella tutti e due, fino alla stalla.
Gli uomini di campagna, ragazzini cresciuti tra gli animali da cortile, tra le greggi, non hanno certo bisogno che qualcuno spieghi loro come si fa a entrare nel mondo; sotto i loro sguardi di bambino sono nati cuccioli di ogni madre: gattini, cagnolini, dai pulcini agli asinelli, nelle stalle e nelle case. Sono stati i loro padroni a decidere di fare accoppiare gli esemplari migliori, arieti, tori e galli, hanno dato nomi speciali agli animali capaci di fare covate, nidiate, figliate.
In famiglia si festeggia la scrofa, la manza che diventa vacca, la gallina ovaiola… il pastore premuroso separa gli agnelli e le puerpere dal resto del gregge, li porta a dorso d’asino in pascoli separati: che non siano calpestati!
Giuseppe il Sognatore ha fatto uguale: sull’asino il suo Agnello in stalla separata, un angolo del mondo in cui vegliare premuroso, tra sangue acqua e paglia, il Figlio nemmeno suo… Giuseppe, quale pietà ti muove…
Perché e come hai fatto a dare retta a un Sogno, a farti portare via l’amore della vita; no, nemmeno questo è giusto, in Sogno ti hanno chiesto di prendere ma non toccare, di proteggere, amare, nutrire e stare, fermo, a contemplare mentre Dio occupa il corpo di una donna che chiamano tua moglie ma è una figlia; La Figlia.
Tu, il padre che è tutto e solo dare.
Giuseppe in ginocchio che scuote la testa; chiude gli occhi per un lungo minuto, lei è accanto, gemente e fremente. Perché una donna lo sa Chi è il figlio che porta in grembo.
Appena concepito migliaia di cellule fetali si sversano nel torrente del sangue della madre: cominciano da subito a parlare con il corpo di lei, cominciano a cambiare la sua mente, producono ormoni che le mettono nel cuore emozioni; hanno trovato dopo anni tracce genetiche del bimbo intessute strettamente nelle fibre delle mamme, indelebili, inseparabili.
Lei lo sapeva, lo sentiva; il figlio di Dio diceva da dentro sua madre, con la sua bocca rosea di donna, con la sua pelle traslucida, con le sue pupille trasparenti. Maria era tutta di Dio, come una donna sa essere tutta del figlio, innamorata.
Non servivano parole, altri Angeli, altri annunci, lei era l’annuncio stesso, il Verbo nel ventre.
Maria, chissà cosa sarà stato starle accanto; chissà se lui, Giuseppe, Lo vedeva, sentiva Dio crescere in lei.
Giuseppe, in ginocchio, quella notte, come tante altre notti, aspetta.
Lui, immerso nel suo Sogno, come un paladino.
Come un padre; come qualsiasi padre: pronto a prenderlo, tagliare col coltello il cordone dell’agnello, cullarlo. Il primo padre. Il primo uomo ad abbracciare Dio.
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