Solo il secondo comandamento trattiene dal soffermarsi sull’ipotesi che possa essere ormai soltanto San Pio a proteggere il premier Giuseppe Conte – a lui assai devoto – dalla doppia insidia del ridicolo e del precipizio politico. Già, perché al ridicolo e al precipizio si pensa leggendo un tweet di poche ore fa digitato dall’inquilino di Palazzo Chigi, dopo il vertice di maggioranza convocato per analizzare la situazione politica dopo le elezioni regionali di Emilia-Romagna e Calabria: “È iniziato il confronto con le forze di maggioranza per rilanciare l’azione di Governo. Il Paese ha molte urgenze e i cittadini attendono tante risposte. Dobbiamo procedere spediti, determinati, compatti”.
Spediti? Determinati? Compatti? Ma è meraviglioso, per non dire – appunto – miracoloso. Al capezzale del governo seggono ormai non degli alleati ma dei parenti in cagnesco, concentrati solo sulla destinazione della possibile e magra eredità del moribondo. Uno dei due contraenti dell’attuale patto di maggioranza, i Cinquestelle, è stato sgretolato dalla sua stessa inconsistenza politica e dalla totale mancanza di leadership di tutti i loro colonnelli, a cominciare dal maldesignato Luigi Di Maio, e non tutelato a sufficienza – sarebbe stato impossibile! – dal guru Beppe Grillo. Dovunque si siano misurati dopo le ultime elezioni politiche i grillini hanno perso voti, seggi e faccia.
Le contrapposizioni intestine hanno indotto Gigino a dimettersi, ahinoi solo da capo politico del Movimento e non anche da ministero degli Esteri, perpetuando così quel vero e proprio vilipendio alla bandiera costituito dal fatto che l’Italia sia rappresentata all’estero da un ignorante di prima categoria, ormai privo anche dell’unico requisito che l’aveva condotto (non giustificandolo) fin lì, ovvero il mandato politico. Il Movimento non ha ancora saputo sostituire il dimissionario ed ha ripiegato su un reggente incolore. In Emilia i grillini sono crollati e solo il ritorno al voto Pd delle sardine e di un popolo vario variamente intimorito dal Capitano del Papeete ha bloccato la crescita della Lega e ridato spinta a un Bonaccini peraltro in grado di spendersi bene il peso della sua personale credibilità di buon amministratore.
Nelle prossime sei Regioni chiamate al voto in primavera – Liguria, Campania, Puglia, Toscana, Veneto e Marche: quasi metà Paese – i sondaggi confermano la dissoluzione in atto nel Movimento, che peraltro e paradossalmente ha il merito, o la colpa, di aver designato per Palazzo Chigi proprio il premier Conte.
Dunque, di quale compattezza parla quest’ultimo? Allude forse al Pd? Impossibile, Conte è solido, positivo, furbo e gommoso ma non può non sapere quali e quante correnti – intestine e non – lacerino oggi il fronte della sinistra riformista in Italia: innanzitutto lo scisma a destra di Italia viva, piccolo ma agguerrito partitino di Renzi, corroborabile dal movimento di Carlo Calenda; ma anche le varie anime interne all’ex Bottegone, da quella margheritina e post–democristiana di Franceschini, e dello stesso segretario Zingaretti, a quella più movimentista di Gianni Cuperlo & Co., che l’altro giorno giustamente sottolineava come “ad agosto già chiedevo discontinuità anche nella figura del premier imposto dal M5s. Conte, come Michalkov, che ha scritto le parole dell’inno dell’Urss e dell’inno della Russia”. Come dargli torto, come dar torto a quelli di Leu che la pensano in maniera molto simile?
Tutte queste annotazioni ben le conoscono gli interessati e sopra di loro benissimo le conosce il supremo reggitore, Sergio Mattarella, presidente della Repubblica. E allora perché non succede niente?
Per colpa di Salvini. Diciamolo chiaro: la colpa del blocco politico è tutta e solo sua. A danno di lui stesso e della politica del Paese, bloccata appunto lontano da solco in cui oggi la spingerebbe il voto della maggioranza degli italiani, se potesse esprimersi.
Perché? Non per le marginalità a volte stucchevoli e altre volte francamente stupide di cui si dilettano i talk show. Ma per l’incoscienza con cui il segretario ha permesso a quattro colonnelli balenghi di evocare ad ogni pie’ sospinto, durante l’anno del potere verde a Roma, l’ipotesi di un’uscita dell’Italia dall’euro. Attenzione: che l’Unione Europea sia stata fino ad oggi un’iniqua costruzione economica progettata dai tedeschi ad uso e consumo proprio, con la partecipazione beota e marginale di un’inconsapevole Francia, è poco ma sicuro. Solo che l’Italia oggi non è nella condizione innanzitutto economica – per il suo enorme debito pubblico – e poi geopolitica – per il grande gelo che ha creato con il suo Paese di riferimento da sempre, gli Stati Uniti – di contestare alcunché all’Europa: per farlo, avrebbe bisogno di una credibilità che appare perduta. E comunque di non blaterare su un’uscita dall’euro che sarebbe rovinosa. Ma per la comunità finanziaria internazionale – che è davvero il potere forte descritto da tanti – questa condotta politica dell’ex vicepremier e dal suo partito non era scusabile. E se Salvini non si fosse clamorosamente autoaffondato nello scorso agosto, in qualche altro modo sarebbe sicuramente stato trascinato sott’acqua.
E allora? Allora la legislatura va avanti, almeno finché Mattarella – che è innanzitutto un uomo delle istituzioni – non ravviserà nei dati di contesto le premesse necessarie per poter riportare il Paese al voto, com’è ovvio che andrebbe fatto, senza rischiare di riportare lo spread a 600 e dunque l’Italia in braccio alla scampata Troika.
È su questa premessa che Giuseppe Conte, neodemocristiano di finta sinistra, sta costruendo la nuova fase (forse la prima “vera”) della sua leadership: con il porsi come unico garante affidabile agli occhi del Paese e del Quirinale di questo suo governicchio da piccoli passi, “ma meglio che niente”. E in questo scomodo e faticoso esercizio si sta rivelando un fuoriclasse, un fuoriclasse… miracoloso.
E intanto, cosa accadrà “là fuori”? Cosa accadrà nell’enorme terra di nessuno momentaneamente attraversata da banchi di sardine, transfughi del Pd usciti e poi rientrati, primi leghisti nordici delusi dall’ostico partouse del Capitano con le nomenclature meridionali dedite da decenni alla dissipazione dei denari pubblici, orfani del Cavaliere e varie spezzature insignificanti? Chi troverà la pietra filosofale per ridare un po’ di chiarezza a questo brodo primordiale di pulsioni politiche qualunquistiche italiane?
Un nuovo Matteo? Né Renzi né Salvini, naturalmente? Già: e di quale colore? Al momento, davvero non se ne vede nessuno. L’unica cosa che si vede è un referendum che dovrebbe, ovviamente, confermare – in odio alla casta politica che si è auto–evirata – la riduzione del numero dei parlamentari. Col bell’effetto di imbullonare definitivamente alle poltrone altrimenti irrecuperabili gli eletti della legislatura in corso. Allacciamoci le cinture, saranno turbolenze da paura fino a tutto il 2023…