Per la prima volta la Nato riconosce che le ambizioni militari della Cina sono un problema per la sicurezza comune. È il dato saliente da segnare sui taccuini del vertice che si è concluso ieri a Bruxelles, il primo da quando Joe Biden è alla Casa Bianca. Quella stessa Alleanza che Macron nel novembre 2019 aveva accusato di “morte cerebrale” potrebbe dunque ricalibrare i suoi obiettivi. Allora c’era Trump, oggi c’è Biden a intestarsi i 730 mld di dollari (3,42% del Pil, dato 2019) di finanziamento all’Alleanza, che collocano ovviamente gli Usa al primo posto (l’Italia è quinta con 24,4 mld, 1,22%). L’amministrazione Biden potrebbe significare un cambio di priorità strategica rispetto al contrasto della Russia? Ne abbiamo parlato con Paolo Quercia, docente di studi strategici nell’Università di Perugia.



Quale dovrebbe essere il primo fronte della Nato?

Quello di garantire la sovranità energetica e tecnologica dei suoi membri, garantendo che essi possano contare su almeno un decennio di distacco rispetto alle altre potenze. Ma sopratutto che non avvengano saldature tra i sistemi rivali dell’occidente.

Al G7 che si è concluso domenica l’Europa avrebbe smussato l’ostilità di Biden verso la Cina. In effetti, soprattutto l’economia tedesca è saldamente legata a quella cinese. C’è una diversità di agende verso la Cina tra Biden e gli alleati?



Questo è verosimile. La minaccia cinese è percepita in maniera assolutamente diversa tra Europa ed Usa. L’Europa ha vissuto la globalizzazione come un processo di crescita economica geopoliticamente neutrale, incontrando in questo percorso la strategia del peaceful rise di Pechino.

Cosa significa?

Vuol dire che i dividendi del commercio globale vengono trasformati in potere ed influenza cinesi ma in maniera tale che essi non mettono in pericolo la pace e la stabilità internazionali. La Germania in questo rappresenta per Pechino un prezioso partner, con un interscambio commerciale che sostanzialmente è equiparabile al totale della spesa militare complessiva europea.       



Biden ha fatto suoi tutti i dubbi sul Covid e ha detto che servono risposte. Ma dalla Cina non trapelerà nulla. Nondimeno la malattia adesso è un nodo politico. Quali saranno gli sviluppi di questa vicenda?

La questione dell’origine del virus resterà un enigma. Se ci sono prove, o se verranno fuori, di un ruolo umano nella produzione o diffusione del virus, esse saranno accuratamente celate e depotenziate in semplici sospetti. Penso però che Biden andrà ben oltre la linea tenuta da Trump, spingendosi in quel campo che fino a ieri era considerato proprio di teorie cospirazioniste.

Non è chiaro se la Nato serve a minacciare la Russia, come durante l’amministrazione Obama-Clinton, ad espandere l’Alleanza verso Est o a fare altro. Secondo lei?

La Nato da due decenni sta affrontando una complessa fase di ridefinizione della sua natura, anche se noi italiani continuiamo ad avere una visione sostanzialmente statica dell’Alleanza, derivante dalla Guerra fredda e che vede l’Alleanza come un concetto politico costituente la nostra politica estera e dunque limitato nella sua azione regionale difensiva. Altri Paesi Nato hanno invece una concezione diversa dell’Alleanza, in cui prevale il suo valore di strumento, espandibile sia geograficamente che nella sua missione.

Qual è la concezione prevalente in questa fase?

Attualmente sono presenti entrambe, ma non sappiamo quale prevarrà. Oggi la Russia come minaccia rappresenta la prima dimensione, la Cina la seconda. Con la presidenza Biden potrebbe prendere nuovamente forza il disegno di una Nato globale, in funzione anti-cinese. In questo il vertice di ieri aggiunge un ulteriore elemento di trasformazione.

Quale?

I leader dell’Alleanza hanno pronunciato parole molto dure contro Pechino, identificando la Cina come un Paese portatore di una sfida sistemica all’ordine internazionale e alla sicurezza dell’Alleanza.

Il ruolo cosiddetto proactive (preventivo) della Nato nella comunità internazionale non giustifica in Putin la sindrome da accerchiamento e la postura offensiva verso l’Europa?

Credo che la Russia sia abituata alla sovrapposizione del suo estero vicino con lo spazio di allargamento ad Est dell’Alleanza. È una situazione di contrapposizione strategica che risale al crollo del muro di Berlino e che sostanzialmente ha prodotto un sistema nei rapporti con la Russia post-89.

Georgia e Ucraina?

Sono dei fallimenti in questo modello. Quello che più teme la Russia non è a mio avviso l’accerchiamento geopolitico, quanto piuttosto i tentativi dell’occidente di forzare i cambi di regime, a Mosca così come a Minsk o a Kiev. 

Ritiene che la Nato sia lo strumento migliore per contrastare la Via della Seta cinese diretta in Europa?

Se il problema è la Via della Seta, la Nato certamente non è lo strumento migliore. Qui la partita si gioca su altre dimensioni, economiche, finanziarie e tecnologiche. Il fatto che la Nato venga arruolata in questa campagna vuol dire probabilmente che il problema non è solo la Belt and Road Initiative.

Si direbbe che un uso incauto della Nato rischia di consegnare la Russia alla Cina. Oppure la Russia è già nell’orbita cinese?

No, non lo è. Ma se si continua ad erodere la dimensione europea della Russia e al tempo stesso gli Usa avviano una forte politica di contenimento di Pechino in Europa, Asia ed Africa, ecco che allora quella strana convergenza tra questi due sistemi potrebbe avverarsi. E portare ad un satellizzazione della Russia rispetto alla Cina. Uno scenario tuttavia ancora fanta-geopolitico.    

Oggi la frontiera dell’Europa più esposta alla Cina è l’Italia. Come giudica le dichiarazioni di Draghi  al G7 con particolare riguardo al controverso “memorandum” del 2019 da rivedere?

Il memorandum credo che fosse un impegno tutto sommato blando, rispetto alle tipologie di rapporti con Pechino costruite da altri Paesi europei. Credo che quello che abbia preoccupato sia stata prevalentemente l’inaffidabilità complessiva dell’esecutivo che lo aveva firmato e la sua incapacità di cogliere i cambiamenti geopolitici di lungo periodo. Draghi vuole dare discontinuità rispetto a questa fase pressappochista di gestione della politica estera. Detto questo, la demonizzazione della Cina e dei suoi investimenti è un gioco ugualmente pericoloso che forse non dobbiamo necessariamente comprare a scatola chiusa. 

“Una Unione Europea più forte significa una Nato più forte” ha detto Draghi. È vero? O piuttosto la Nato è un problema per l’Europa?

No, la Nato non è problema per l’Europa. Lo sarebbe se non ci fosse. Poi la Nato può ovviamente sbagliare. O meglio assumere posizioni politiche e di sicurezza che non coincidono con i nostri interessi nazionali. Qui il problema è di guida politica nell’Alleanza. Ma finché il contributo europeo in termini militari sarà troppo più basso di quello americano, la guida politica resterà oltre Atlantico.

È realmente possibile quella che Draghi chiama “autonomia strategica” dell’Ue nella Nato?

Difficilmente, per il motivo dell’esiguità dei contributi dei Paesi europei nella Nato. Ma probabilmente il nostro premier intendeva ricondurre le ambizioni francesi di sovranità strategica europea all’interno dell’Alleanza atlantica. In questo il ritorno di Biden al multilateralismo con gli alleati rafforza ovviamente questa opzione. Anche se, personalmente, ritengo che la vera autonomia strategica poteva essere perseguita durante la presidenza Trump.

In che modo?

Sfruttando il suo unilateralismo, investendo in maniera significativa nel settore della difesa e provando a modificare il rapporto strategico con gli Usa. Era un’occasione come poche. Ora l’Europa è destinata a ritornare nel suo ruolo subalterno, quello nato dopo la seconda guerra mondiale quando gli Stati Uniti si sono fatti carico dei costi della sicurezza europea. Ora sarà la sfida con la Cina a ricondurci in questo nostro antico ruolo.

Qual è in questo contesto il ruolo dell’Italia e come lo sta attuando Draghi?

Il ruolo mi pare sia quello di tenere in tensione costruttiva il progetto europeo con quello atlantico e far si che essi abbiano il loro baricentro nell’Italia. Per far questo occorre favorire che il punto focale delle due alleanze sia il Mediterraneo. Ed una nostra politica estera più attiva in questo quadrante ne rappresenta il presupposto. Draghi mi pare che lo abbia sostanzialmente chiaro. Bisogna vedere se avrà mezzi e tempo da dedicare a questo progetto. 

(Federico Ferraù) 

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