Speriamo che non rimanga l’unico record memorabile della conferenza sul clima che si è aperta ieri (lunedì 2) a Madrid. In circa un mese contro il canonico anno solare, la Spagna ha organizzato l’incontro Onu sul clima dopo le defezioni dei paesi inizialmente designati per ospitare il COP25, Brasile e Cile. Una corsa contro il tempo con gli stessi tempi da cardiopalma di quella che l’umanità sta compiendo per contrastare il cambiamento climatico.



Mentre le delegazioni di 196 paesi e una quarantina di capi di Stato, con assenze eloquenti come quella del Presidente degli Stati Uniti o altre più ambivalenti da interpretare come quella di Emmanuel Macron, si sono riuniti per l’apertura dei negoziati che dureranno fino al 13 dicembre, il trend delle emissioni di natura antropica non si è invertito nonostante tutti gli appelli degli scienziati, l’effetto Greta e i buoni propositi dei governi. Anzi, paradossalmente si è registrato l’effetto opposto. Negli ultimi 10 anni, mediamente, le emissioni di CO2 sono aumentate dell’1,5% l’anno per toccare nel 2018 il picco assoluto di 55,3 miliardi di tonnellate e le previsioni per il 2019 non lasciano ben sperare. Siamo drammaticamente fuori linea dall’obiettivo di contenere l’innalzamento delle temperature sotto i 2 gradi entro la fine del secolo. Assolutamente impensabile l’auspicato obiettivo di 1,5 gradi fissato dall’Accordo di Parigi concluso nel 2015. Barra dritta invece a un aumento delle temperature medie di 3,5 gradi entro il 2100. Una catastrofe.



Frastornati, i politici – in primis i britannici e dallo scorso 28 novembre anche gli europarlamentari – hanno intanto deciso di designare con l’espressione “emergenza climatica” il cambiamento climatico; termine questo reputato troppo anodino per generare nei governi un sussulto più vigoroso. Per ora ha prevalso sostanzialmente l’ascolto compunto dell’arringa del popolo di Greta e degli allarmanti dispacci scientifici sul restringimento dei ghiacci artici, gli incendi della foresta amazzonica, l’assottigliarsi del permafrost siberiano, la scomparsa della barriera corallina, ecc.. Tutti segnali che ci dicono che abbiamo già superato quei punti di svolta di un processo che denotano l’avverarsi di un cambiamento significativo ossia siamo già entrati nella fase di crisi. Un processo di cui si parla da 30 anni. Nei luoghi della politica si risponde essenzialmente fissando obiettivi sempre più ambiziosi. Ancora una volta António Guterres esorta a spingere più in alto l’ambizione. Come se semplicemente alzando sempre di più l’asticella, si imparasse a saltare.



La risposta dei governi? Secondo l’Accordo di Parigi, entro il 2020 gli Stati sono chiamati a presentare il proprio nuovo piano climatico. Per ora hanno fatto i compiti sono le isole Marshall, mentre 68 nazioni si sono impegnate ad aumentare gli sforzi. Peccato che rappresentino solo il 7% delle emissioni globali. Mancano all’appello le grandi potenze, quelle del G20, un’area economica che contribuisce per l’80% delle emissioni globali climalteranti. Contrattacca allora Ursula von der Leyden intenzionata a portare il continente europeo alla neutralità carbonica nel 2050. L’Europa dopo la Cina e gli Stati Uniti è il terzo emettitore mondiale, ma con alle spalle un buon record di performance virtuose. Nel Green Deal della presidente della Commissione europea si punta ad aumentare il contenimento delle emissioni di gas a effetto serra che dovranno ridursi del 50% nei prossimi 10 anni e del 55% nei successivi 20 anni, contro il – 40% del piano attuale. Tre paesi si oppongono al disegno: Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria. E la seconda fase 2030-2050 del Green Deal è più incerta perché ha ottenuto il supporto di solo 9 stati tra cui l’Italia. A fare la differenza saranno i soldi che l’Ue si deciderà di stanziare per il fondo per la transizione energetica che per le economie dell’est ancora fortemente dipendenti dal carbone è strategico.

Il resto del mondo seguirà l’esempio europeo, ha affermato Ursula von der Leyden, persuasa di convincere così la Cina e di negoziare un accordo con Pechino al prossimo vertice bilaterale previsto a settembre prossimo a Leipzig. Intanto. però, la potenza delle centrali a carbone in costruzione in Cina è pari a quella dell’intero parco di centrali a carbone funzionanti ora in Europa.