È finito come previsto, cioè con un sostanziale nulla di fatto, l’incontro tra Governo e opposizioni parlamentari sul salario minimo. Nessuna delle parti ha ottenuto qualcosa di concreto a favore dei circa 3 milioni di lavoratori che non sono tutelati da un contratto di lavoro che obbliga i datori di lavoro a rispettare livelli di paga dignitosi. Sia il Governo sia l’opposizione, tuttavia, hanno portato a casa un risultato politico da fare fruttare nei mesi a venire.
Le minoranze si sono ricompattate attorno a un tema che dovrebbe essere un cavallo di battaglia della sinistra, benché nei lunghi anni in cui il Pd o i 5 Stelle sono stati al governo non abbiano fatto nulla per alzare i salari avvicinandoli ai livelli europei. Avere puntato i piedi sul salario minimo chiedendo e ottenendo di essere ricevuti a Palazzo Chigi è stata la prima vera iniziativa politica degli ultimi mesi. È tutto da verificare se questo primo banco di prova di un rinnovato “campo largo” potrà reggere nel tempo; un passo per costruire un’alternativa credibile all’attuale centrodestra è comunque stato fatto. E un risultato è stato ottenuto: mostrare che il Governo è – per ora – senza una “controproposta” su una questione alla quale, secondo i sondaggi, gli elettori – compresi quelli del centrodestra – sono molto sensibili.
L’asse tra Pd, 5 Stelle, Sinistra italiana e Azione è una novità che non va sottovalutata. A favore dei partiti di opposizione è il fatto di avere evidenziato che il Governo Meloni non è ancora in grado di ipotizzare un’alternativa alla loro proposta di introdurre un salario minimo di 9 euro l’ora. Una ricetta che però ha il torto di semplificare troppo una questione molto più complessa. Nel fronte ricompattato l’assenza di Matteo Renzi è significativa, a conferma che l’ex premier (a differenza di Carlo Calenda, che in questa circostanza si è schierato nettamente con la sinistra) vuole ritagliarsi un ruolo di ponte verso la maggioranza.
Su questo punto, ovvero l’ampiezza del tema salari, ha fatto leva Giorgia Meloni, per la quale non si può pensare di risolvere la questione semplicemente con i 9 euro. Dalla sinistra – ha fatto rilevare la premier – non sono arrivate proposte per coprire l’incremento del monte salari, né idee per estendere la contrattazione ai settori che ne sono ancora privi. È vero che il governo non ha una controproposta, ma ha fatto il gesto di ricevere l’opposizione (trattamento mai riservato a Fratelli d’Italia quand’erano in minoranza) e di aprire un tavolo di confronto.
La strategia della Meloni è stata quella di mostrarsi aperta al confronto e di istituzionalizzare il problema. In assenza di una proposta propria, il Governo si è dato due mesi di tempo, cioè fino alla legge di bilancio, coinvolgendo il Cnel presieduto da Renato Brunetta, organo di rilievo costituzionale che ha il compito di esprimere pareri e promuovere iniziative legislative in materia economico-sociale. È un modo per guadagnare tempo ma anche per incardinare la discussione su una materia così ingarbugliata in un luogo istituzionale, dotato di una specifica competenza assegnatagli dalla Costituzione stessa, con la prospettiva di arrivare a un’ipotesi di riforma che coinvolga non solo l’opposizione, ma anche sindacati e datori di lavoro.
La Meloni dispone ancora di un consenso tale da poter ascoltare l’opposizione, prendersi due mesi per mostrarsi interlocutore credibile e poi prendere delle scelte, guardando alla sostenibilità dei conti pubblici. Nel frattempo Conte, Schlein e Calenda raccoglieranno le firme per una petizione da presentare alle Camere. Forse è un po’ poco. La partita è solo rimandata.
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