“Se qualcuno finisce in mare durante una tempesta, non viene aiutato se il resto dell’equipaggio si butta anch’esso dopo di lui. È meglio restare sulla nave e gettare un salvagente a chi ne ha bisogno”. Dorothea Siems è caporedattore dell’economia di uno dei più autorevoli giornali tedeschi e quanto ha scritto su Die Welt interpreta un sentimento piuttosto diffuso in Germania. In un recente sondaggio l’ostilità verso i “coronabonds” si attestava intorno al 65% del campione, che non è il 79% della crisi 2011-12 che si opponeva agli eurobonds, ma dà un’idea chiara del muro di diffidenza che sta di fronte.
La diffidenza di chi ha visto dalla propria nave l’Italia, nel decennio successivo alla crisi finanziaria globale del 2008, sottrarsi con scrupolosa pervicacia a ogni riforma che avrebbe potuto rilanciarne la crescita e quindi ridurre anche il rapporto debito/Pil, arrivando all’appuntamento con questa nuova crisi con un debito di ben trenta punti percentuali superiore laddove la Germania vi arriva con venti punti percentuali in meno. Forse possiamo sussurrarcelo nell’orecchio. Ha ragione Dorothea Siems, se la Germania avesse imitato l’Italia sarebbe stato difficile oggi gettare in mare alcun salvagente. Certo non poteva varare per sé, con umiliante nonchalance, un intervento del valore stimato di circa 1.100 miliardi di euro in risposta all’emergenza.
Il timore dunque di buttarsi tra i flutti con noi condividendone il debito, quand’anche futuro, meriterebbe considerazione forse più indulgente. Anche perché non devono essere state di grande sollievo e rassicurazione le ricorrenti dichiarazioni del Governo precedente Lega/5 Stelle di ristrutturazione del debito nazionale in pancia alla Bce, di possibile uscita dalla moneta unica quando non l’uso di argomenti ricattatori come quello che l’Italia fosse “troppo grande per fallire”.
Insomma, senza impiccarsi ai nomi con cui spesso, anche nel dibattito pubblico giornalistico, si sorvola sugli elementi tecnici degli strumenti che farebbero una grande differenza, qualunque obbligazione sovrana, la si chiami “corona bond”, “euro bond” o “union bond”, che usi un emittente comune e terzo per raccogliere provvista sul mercato dei capitali, distribuendo senza condizioni quella raccolta ai singoli Stati membri, con una conseguente responsabilità solidale per l’intero da parte di ognuno e tutti gli Stati partecipanti, richiede un incredibile atto di fiducia tra i debitori. Contiguo alle temerarietà nella percezione di un politico, tedesco od olandese, che teme che mentre dalle loro parti ferva il dibattito su come ripagare il nuovo debito (è il caso ad esempio del ministro delle Finanze di Berlino che ha rotto il tabù della patrimoniale), in altri Paesi si possa pensare di alzarsi senza pagare il conto lasciandolo agli altri. Nessun leader dei Paesi nordici intende mentire ai suoi elettori garantendo che non pagheranno i debiti altrui. Ogni linea politica del Governo italiano in Europa che non sconti questo semplice dato di realtà è da paese di gnomi e unicorni.
Non è certo un caso che si parli di eurobond praticamente da sempre, dai tempi della prima proposta formulata dalla Commissione guidata da José Manuel Barroso durante la crisi del debito pubblico europeo del 2011-2012, quella innescata dalla Grecia. Da allora un cimitero di proposte, tutte fallite, volte a sedare le preoccupazioni dei “frugali”. A partire da quella Prodi-Quadrio Curzio del 2011, temperata da contro-garanzie reali, ripresa di recente sulle colonne del Sole, a cui non era difficile pronosticare uguale fortuna. E infatti. Anche questa volta il Consiglio europeo di giovedì 23 ha deluso le ingenue (?) aspettative italiane. Anzi, per dirla tutta, com’è apparso nero su bianco chiaro sin dalla lettera di convocazione del suo presidente Charles Michel, il Consiglio, convocato nel pomeriggio in videoconferenza, non ha lontanamente neanche introdotto una discussione su strumenti di debito comune quali quelli, almeno in origine, proposti dal Governo italiano (coronabond). Sul tavolo della discussione vi è stato altro.
In primo luogo, la messa in sicurezza delle decisioni dell’Eurogruppo del 9 aprile scorso. Un pacchetto di aiuti da 500 miliardi di euro. Tra questi l’accordo sull’utilizzo del Mes senza condizionalità sulle spese sanitarie, un’operazione da 200 miliardi di euro tra prestiti e garanzie a favore delle imprese, sostenuta dalla Bei, un piano da 100 miliardi contro la disoccupazione (Sure), gestito dalla Commissione europea, per il sostegno alle casse integrazioni nazionali. Sono i fondi che da subito possono essere resi fruibili e il tempo non è fattore neutro. Da qui l’obiettivo condiviso di giugno per l’attivazione dei programmi.
Il piatto forte era però la risposta alla crisi sistemica e simmetrica attraverso un piano europeo per la ripresa (“recovery plan” secondo la prima proposta francese). La Commissione aveva infatti già anticipato al Consiglio un documento contenente un pacchetto di iniziative destinato a integrare il bilancio pluriennale Ue e a mobilitare almeno 2.000 miliardi di euro per ridare slancio alle economie colpite dalla crisi. Incardinato in tale programmazione di bilancio 2021-2027 (Mff – Multiannual Financial Framework), anche un fondo temporaneo e mirato per la ripresa dotato di 300 miliardi di euro con base legale nell’art. 122 del Tfue. Fondo che, una volta raccolta la provvista, dovrebbe trasferirla agli Stati secondo prestiti – nella posizione dei Paesi “virtuosi” – o sovvenzioni a fondo perduto su specifici progetti secondo il modello degli attuali fondi di coesione europea – nei desiderata dei Paesi più indebitati come il nostro -. La Commissione, di concerto con la Presidenza del Consiglio, proporrà comunque entro il 6 maggio p.v. un piano dettagliato. Un futuro Consiglio europeo non pare improbabile possa trovare un compromesso su tale ultima spinosa questione con un mix di prestiti e sovvenzioni compatibile con gli spazi finanziari che l’incremento di risorse del raddoppiato bilancio Ue consentirebbe.
L’aspetto più significativo è tuttavia il radicale spostamento dell’asse di discussione ora centrato sul bilancio dell’Unione e dunque sugli organi della stessa nelle gestione dei fondi per il rilancio. Una prospettiva completamente diversa da quella sino adesso prospettata dai Paesi mediterranei, Italia in testa. Debito comune raccolto sui mercati – con costi per alcuni sensibilmente minori, per altri maggiori -, responsabilità solidale nella restituzione (temperata in caso di bond perpetui secondo la proposta spagnola), spesa nazionale senza alcun limite e controllo comune. Fondi dunque che, coerentemente e con scarso senso del tempismo, il ministro Patuanelli si era affrettato a dichiarare in Parlamento sarebbero tornati molto utili per l’ennesima ricapitalizzazione di Alitalia. Tale sequenza, vista come un film horror dai Paesi del nord, rappresenta in realtà un’aberrazione e un unicum negli assetti federali.
L’Europa, lo abbiamo sempre spiegato, non è una federazione e neanche una confederazione. Ma persino negli Stati federali esiste una nitida distinzione tra i debiti e le emissione federali e quelle dei singoli Stati. Il debito federale è gestito dagli organi centrali nell’interesse comune e a nessuno, ad esempio negli Usa, verrebbe in mente di dare come scontato il soccorso del bilancio federale ai bilanci dei singoli Stati, men che meno a fondo perduto. Non a caso nel recente passato la California è serenamente “fallita” e oggi, laddove il Covid-19 pone sfide inedite alla solidarietà nazionale, ferve un accesissimo dibattito, testimoniato da un accorato articolo di qualche giorno fa sul WSJ che mette in guardia sui rischi di lungo termine di un bail-out federale degli Stati più in difficoltà. Volendo semplificare all’estremo, i rapporti tra gli Stati europei non sono come la Calabria e la Lombardia e anche in un’auspicabile prospettiva federale non lo diventeranno, occorre farsene una ragione. Tuttavia la prospettiva in cui ci si è incamminati è corretta e potrebbe essere di grande e concreto aiuto alle economie nazionali.
Rafforzamento del bilancio comune, gestione unitaria delle risorse con impatto di scala europeo degli investimenti. Il vero salto di qualità, lo si è ripetuto sino alla noia da questa testata, avverrà però dotando l’Unione di vere risorse proprie, con un’autonoma capacità fiscale per finanziare la detta arteria femorale delle politiche europee al servizio finalmente dei cittadini europei. Vi sono molteplici proposte in questo senso. Alcune di plausibile e non difficile realizzazione, quali l’introduzione di una carbon tax europea strumentale all’ambiziosa transizione di cui il continente si è messo alla guida, altre più complesse quali l’introduzione di un sistema di tassazione a livello europeo dei giganti del web che producono enormi profitti sul nostro territorio pagando briciole, anche per la competizione fiscale tra Paesi che verrebbe così recisa in radice. Tutte comunque presuppongo idee chiare sul dove si voglia andare.