ANNA, IL SUICIDIO DI STATO E LA FINTA CONQUISTA DI CIVILTÀ: PARLA IL VESCOVO DI TRIESTE

Non è certo da oggi che il vescovo di Trieste, mons. Enrico Trevisi, guarda con timore e preoccupazione ai casi sempre più frequenti in Italia di richieste “esaudite” di suicidio assistito: il caso di Anna, sua concittadina, la prima donna morta in Italia con l’aiuto diretto dello Stato, ha scosso il presule che immediatamente si è recato in chiesa a pregare per lei. Nell’intervista di oggi al “Corriere della Sera” il vescovo di Trieste è subito schietto e senza preamboli tinti di moralismo: «Noi non conosciamo quello che aveva nel cuore, la sua sofferenza, la speranza. Solo Dio lo sa. E noi la affidiamo nella preghiera al Signore, come affidiamo tutti i defunti e i malati…».



Lo scorso 24 ottobre mons. Trevisi insieme agli altri vescovi del Triveneto scrissero un’importante nota per la Pastorale della Salute della CEI locale dal titolo eloquente “Suicidio assistito o malati assistiti?”: il primo compito della comunità civile e del sistema sanitario è assistere e curare, non di «anticipare la morte». Dopo il caso di Anna l’allarme risuona ancora più grande, non dimenticando però che si tratta pur sempre di una storia di una persona, per cui andare a “sparare” sentenze in qualsivoglia ambito è assai poco consigliabile: «Di fronte al mistero della morte, è il momento del raccoglimento e non delle discussioni». Il vescovo Trevisi è netto anche su questo, spiegando che la Chiesa non giudica mai (e non dovrebbe mai farlo) sulla persona, in quanto «questo appartiene solo a Dio. Come sacerdote e vescovo, incoraggio tutti a dare una carezza a chi soffre, a chi sta male ed è vulnerabile, disperato».



MONS. TREVISI: “AIUTIAMO DI PIÙ I MALATI A NON SENTIRSI UN PESO. SOLO DIO GIUDICA. GUARDARE A CRISTO DAVANTI ALLA SOFFERENZA”

La domanda di fondo, aggiunge il vescovo di Trieste sempre al “Corriere” in merito al caso del suicidio assistito nel Friuli, «è se stiamo facendo abbastanza per le persone malate o con gravi disabilità, magari sole». Trevisi non intende incolpare nessuno ma solo svegliare dal torpore la coscienza comunitaria e civile, «come Chiesa e comunità civile, ci stiamo davvero impegnando ad accompagnare i malati gravi, stare loro accanto e assisterli anche con le cure palliative, a fare in modo che non avvertano sé stessi come un peso o un costo economico, né arrivino a sentirsi uno scarto o a considerare la vita un peso insopportabile».



La Chiesa è contraria al suicidio assistito e all’eutanasia, ma allo stesso tempo mette sempre in guardia dal non eccedere al contrario sull’utilizzo della medicina e della scienza, allungando la vita a tutti i costi o peggio “imponendo le cure”: il punto è che davanti alla vita e alla morte non si può risolvere la “partita” con soli slogan. «Nel testo che abbiamo scritto», aggiunge mons. Trevisi, «si parla anche di creare degli spazi di dialogo e di riflessione, fuori dalle polemiche e dalle rivendicazioni della vita come proprietà privata». La provocazione importante della chiesa davanti all’eutanasia è chiedersi, senza preconcetti o “bigottismi”, se una vita che non abbiamo scelto e che ci è stata data sia «semplicemente un oggetto come tutti gli altri, e non custodisca invece un mistero da decifrare che ne racchiude il senso». Davanti al dolore e alla fatica occorre sempre chiedersi dunque se si è da soli o se si può essere aiutati e accompagnati.

In un’altra intervista a “La Stampa” è ancora il vescovo di Trieste a raccontare come davanti al suicidio assistito fornito dallo Stato alla donna triestina Anna, non si può affatto parlare di una “conquista” o peggio di un “progresso” della civiltà: «il vero progresso è un’assistenza di qualità, un’adeguata alleanza terapeutica», racconta il presule Enrico Trevisi, «Mi fa male la disinvoltura con cui si inneggia al suicidio assistito come a una conquista». Davanti alla sofferenza e al dolore esistente e reale, il vescovo racconta quello che dice da sempre alla sua comunità di fedeli: «Noi crediamo nel Dio della vita e a Lui affidiamo tutti i nostri defunti e pure i nostri malati, nella loro fatica di sopportare il dolore fisico e la sofferenza per la propria inabilità, per il dare senso alla propria condizione di grave disabilità, dell’aspettare una morte che pare tardare e accrescere l’angoscia». Trevisi conclude dicendo che tutti siam un po’ tremanti di fronte allo spettro che qualcosa come quanto capitato ad Anna, a Eluana, a Piergiorgio e tanti altri ancora, possa capitare a noi: «Io l’unica proposta che mi sento di esprimere è: guardare a Gesù Cristo. Di guardarlo povero a Betlemme: per Lui non c’era posto. La sua è stata da subito una vita precaria. Fino al momento della Passione e Crocifissione. Così si riflette sulla sofferenza in termini concreti, di chi ha saputo amare anche dentro questo mistero di male che talvolta ci affligge tanto».