Joe Biden ha scelto il prossimo 11 settembre come data ufficiale del ritiro degli ultimi soldati americani in Afghanistan, una data che ha molte suggestioni. Sarà il ventesimo anniversario degli attentati alle Torri gemelle scatenati proprio dai talebani afghani, e il ventesimo anniversario dell’invasione dell’Afghanistan come conseguenza di quell’attacco terroristico.
Vent’anni di impegno militare che sono costati agli Stati Uniti 2.400 vite umane e ben due trilioni di dollari. Ma soprattutto, secondo molti osservatori, vent’anni inutili, in cui la presenza talebana non è stata affatto eliminata, anzi è più attiva che mai, tanto che, in seguito agli accordi stipulati, entreranno a far parte del prossimo governo nazionale, in cambio della rinuncia all’uso delle armi.
“Un accordo, quello raggiunto, frutto di un dialogo fortemente voluto dagli americani, che di fatto rimarranno presenti in Afghanistan con una forte presenza diplomatica ma anche di intelligence, in modo da vigilare sulle possibilità di nuove formazioni terroristiche” ci ha detto il generale Marco Bertolini, già comandante del comando Operativo di Vertice Interforze e della Brigata Folgore in molte missioni internazionali, dal Libano alla Somalia e all’Afghanistan.
Dal suo punto di vista di militare che ha preso parte a tante missioni di pace in diverse zone del mondo in guerra, questo ritiro americano si può definire una sconfitta? Gli obbiettivi promessi da Bush di democratizzazione in tempi rapidi non sono mai stati raggiunti.
Bisogna capire sconfitta rispetto a che cosa. Rispetto agli obbiettivi che sono stati dati in pasto all’opinione pubblica non c’è dubbio che sia una sconfitta.
Perché?
Perché i talebani, che per anni sono stati descritti come il pericolo numero uno al mondo, tanto che la parola talebano è diventata di uso comune per definire le persone peggiori, sono ancora attivi, anzi entreranno a far parte di un governo ufficiale di coalizione.
Quali erano allora le motivazioni reali dell’operazione militare in Afghanistan?
Quando è stata lanciata, l’operazione rispondeva a obiettivi strategici statunitensi. Noi siamo andati là per questi obiettivi, i talebani facevano parte di quella componente afghana che aveva beneficiato del sostegno americano quando ci fu l’invasione russa.
Quindi?
Ogni paese aveva la sua quota di interesse, fosse anche solo partecipare a uno sforzo comune, però come gli Stati Uniti avevano interesse a intervenire, adesso hanno interesse ad andarsene. Tutti i ragionamenti sul fatto che le condizioni che si dovevano raggiungere non sono state conseguite, anche da chi si era opposto a Trump – perché non dimentichiamo che è stato Trump a decidere di lasciare l’Afghanistan -, trovano il tempo che trovano.
Che cosa rimane di questi vent’anni?
È certamente una sconfitta per quel che riguarda gli obiettivi propagandati, ma non una reale sconfitta, perché comunque gli americani rimarranno con una presenza diplomatica molto forte e con il controllo del territorio e di ogni possibile attività terroristica.
Il famoso detto “esportare la democrazia con le armi”, che è stato un fallimento anche in Iraq, ha avuto un peso anche qui? Gli italiani, e lei lo sa, si sono sempre distinti per aver aiutato le popolazioni, senza l’uso sproporzionato delle armi.
Nonostante tutto il male che noi italiani diciamo di noi stessi, siamo meno spocchiosi rispetto a inglesi e americani. È anche vero che noi eravamo dislocati in una zona più tranquilla, al confine con l’Iran, paese che non ha mai appoggiato i talebani. I talebani non sono mai riusciti ad avere il controllo di quella regione, come anche la regione nord dove operavano i tedeschi.
Gli americani invece?
Erano impegnati nelle zone più pericolose, mettevano in questa impresa una determinazione diversa. Lo stesso ruolo nel Prt (Provincial Reconstruction Team, un organismo amministrativo a carattere civile-militare che ha la responsabilità di assistere le istituzioni locali di uno Stato nel consolidare ed accrescere la propria autorità, ndr) era per noi lo sforzo principale, per gli americani era un impegno finalizzato all’obiettivo militare. Detto questo, anche noi ci siamo trovati spesso in combattimento, abbiamo avuto vittime e abbiamo dovuto sparare.
È mancato probabilmente lo sforzo politico di ricostruire un Afghanistan democratico?
Certamente.
I talebani entreranno nel governo: ritiene si accontenteranno del ruolo assegnato o cercheranno di riprendere il potere assoluto che avevano prima del 2001?
I talebani oggi sono più calcolatori di quanto si creda. Cercheranno di trovare un modo per esercitare la loro parte di potere, di ampliarla, senza tuttavia arrivare agli eccessi a cui eravamo abituati, tenendo conto di quello che gli americani consentiranno, perché saranno ancora loro a tenere in mano il pallino. La pace si è raggiunta perché Trump ha spinto le due parti a incontrarsi, non grazie ai talebani.
Cosa cambierà in quell’area del mondo?
Un ruolo importante lo gioca la Turchia. In questa fase di dialogo il prossimo 24 aprile si terrà a Istanbul, per scelta di Biden, un incontro per la pace. Di tutti i paesi coinvolti la Turchia è quella che ne esce vincitrice.
Perché?
Perché vedrà la sua sfera di influenza ampliata all’Asia centrale. Dopo l’operazione vincente con l’Azerbaijan adesso come ospiti della conferenza ne trarranno molti benefici.
Ma i russi stanno a guardare?
I russi hanno altre priorità. La Turchia ha flirtato a lungo con Mosca in Siria, adesso ha l’occasione di ritagliarsi un ruolo di leader. Per la Russia quello che conta è l’Ucraina, è vitale per poter essere presente nel Mediterraneo e in Europa: senza Ucraina viene spinta in Asia e viene esclusa dal Mediterraneo.
(Paolo Vites)
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