Spesso i simboli infastidiscono. Travolti dai problemi quotidiani ci appaiono fuori luogo, ridondanti, inutilmente enfatici rispetto all’ostentata banale ovvietà, quando non addirittura alla trivialità, che regna nei rapporti ordinari. I simboli finiscono quasi per apparire provocatori e di intralcio rispetto al dominio delle preoccupazioni che spesso ci sommergono. Le società passate che avevano problemi immensamente maggiori e, se possibile, precarietà ancora più esplicite, avevano riempito il territorio di simboli: vere e proprie mappe di vita, che indicavano dove guardare, anche e soprattutto quando si era travolti dall’esistenza e dalle sue miserie. Noi, al contrario, riteniamo che non servano, che non ci siano necessari. Chi proprio ritiene di non poterne fare a meno può andarseli a cercare nei luoghi particolari; là dove sono esposti come si deve, separati dal mondo ordinario che non vuole vederli e, soprattutto, non sa che farsene.



L’errore comincia proprio da qui. Non è un caso che sia un’economista, un tecnico dei rapporti di scambio utilitari, quindi un analista del pragmatismo, a ritenere che gli unici simboli che contino siano quelli dei segnali stradali, delle mappe geografiche, che regolano il traffico delle merci e i movimenti delle persone. Per molti economisti la società è un orologio delicato, fatto di equilibri e di costanti correzioni. Ciò che non serve a questo è semplicemente ritenuto inutile. Al massimo può riguardare la vita personale e privata, non certo quella collettiva e pubblica.



Così in una scuola nella quale le aule crollano, molti professori non si trovano, la civile convivenza è allo sbando e la droga entra come se fosse tabacco, il nostro economista, promosso a ministro dell’Istruzione, riscopre di nuovo l’idea di togliere il crocifisso dalle aule, assieme alla fotografia del presidente della Repubblica, sostituendo entrambe con una carta geografica. Bastano le mappe, anzi sono proprio quelle a contare.

Una società è invece fatta di principi condivisi e di valori costantemente riproposti, senza i quali andiamo a schiantarci dietro le convenienze del momento, dietro gli accordi e i patti, fatti e disfatti; dietro le strategie: tutte importanti ma non qualificanti. Le strategie infatti, esattamente come gli interessi, non creano coesione ma solo convivenza interessata, tanto che anche una banda di criminali può averne. Gli interessi, come le mappe geografiche, non fanno una civiltà, non fondano alcunché, sono strumenti pratici; servono a lavorare, non ad avere le ragioni per farlo. Una scuola senza simboli è una scuola minima. Un’aula scolastica è allora equiparabile ad un’aula di scuola guida: ci si va per apprendere ad usare uno strumento o una determinata serie di strumenti, non a crescere né ad imparare a vivere.



In questo spettacolare salto in basso i simboli non vanno tolti ma, al contrario, moltiplicati, aggiungendo alla fotografia del nostro presidente della Repubblica i ritratti di quanti hanno costituito quell’immenso patrimonio culturale che fonda la nostra cultura e che beatamente ignoriamo, proprio in quanto lo riteniamo inutile. Con conseguenze di degrado culturale, civile e morale che sono sotto gli occhi di tutti e che operano, guarda caso, proprio in quella stessa vita quotidiana dove i segnali pratici e le mappe non mancano.

Il problema è allora quello non di togliere i simboli o le fotografie che li rappresentano, ma di tornare a sapere cosa indichino, cosa significhino.

Di cosa è simbolo il crocifisso? O meglio, e per essere più radicali, di cosa è simbolo il crocifisso per un non credente, o come si dice oggi, indebitamente, per un “laico” (termine che in sé, non indica alcunché, se non colui che non è consacrato e quindi non appartiene ad un ordine religioso)? Infatti il ministro quando afferma di credere “in una scuola laica” e che le scuole “debbano essere laiche e permettere a tutte le culture di esprimersi” quindi a “non esporre un simbolo in particolare” rivela di non sapere cosa quel simbolo rappresenti, anche e soprattutto per un non cattolico.

Se per il credente Gesù di Nazareth è il figlio di Dio e il crocifisso rappresenta il mistero essenziale della sua divinità; per tutti, credenti e non credenti, Gesù di Nazareth è quello che ha fondato, sulla sua stessa carne, la separazione tra Dio e Cesare, liberando il mondo da qualsiasi despota che avrebbe ritenuto di essere l’uno e l’altro. È da quel Gesù di Nazareth che scaturisce la specificità dell’Occidente. Quella che avrebbe permesso all’Impero di non cadere nell’idolatria, ponendo così le premesse che, lentamente e non senza fatica, avrebbero portato secoli dopo a fondare lo Stato laico, così come noi lo conosciamo oggi.

Senza quel Gesù di Nazareth avremmo seguito tutt’altre rotte, ma soprattutto saremmo incappati in una tempesta perfetta di despoti assoluti e onnipotenti, disposti volentieri ad imporre il culto di loro stessi.

Ma non è solamente questo. Per credenti e non credenti quel simbolo testimonia anche il prevalere della misericordia, dell’autorità che non ha potere, della forza sovrumana del perdono. Senza di quello, caro collega, non sapremmo proprio dove andare. Perché se non c’è società civile senza principi morali, non ci sono principi morali senza un fondamento radicale, un principio primo, che dobbiamo costantemente ricordare.

Rammentarcene, ci è di conforto: è il fondamento della nostra storia e quel simbolo ci aiuta a ricordarcelo, ogni mattina.