Sono ormai trascorsi trent’anni dal delitto di via Poma e, ad oggi, non vi è ancora il colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni. Il processo contro il suo ex fidanzato, Raniero Busco, è terminato con una sentenza di assoluzione; tuttavia, il fascicolo rimane aperto sul tavolo del pubblico ministero Ilaria Calò, nonostante la Procura di Roma abbia battuto molte strade per arrivare alla verità. Sulle colonne de “Il Messaggero” è intervenuto in queste ore il capo della sezione Omicidi della questura capitolina, Antonio Del Greco, che ha parlato del presunto assassino della ragazza: “Un’idea naturalmente ce l’ho, ma oggi rischierei di prendere una querela. Sono convinto, però, che il palcoscenico degli attori comparsi in questa storia sia sempre lo stesso: portiere, indagati, datori di lavoro. Tra questi c’è la verità”. Del Greco ritiene assolutamente palese l’innocenza dell’ex fidanzato di Simonetta: “Questo conferma che non ci sono stati errori nelle indagini da parte nostra, perché altrimenti, con le tecnologie moderne, si sarebbe arrivati all’assassino. Del resto, Busco sarebbe stato il responsabile ideale, un po’ come il maggiordomo. È chiaro che abbiamo valutato subito la sua posizione, ma aveva un alibi”.



VIA POMA: I “NUOVI” ELEMENTI DA CUI RIPARTIRE

La vicenda ha attirato anche l’attenzione del giornalista e scrittore Igor Patruno, il quale ha scritto un libro sulla vicenda, denominato “Il delitto di via Poma, trent’anni dopo“. Come riferisce il quotidiano “Il Messaggero”, l’uomo ha recuperato foto mai emerse sino ad oggi, ma soprattutto nuove testimonianze ed elementi che potrebbero fare comodo agli inquirenti. Quali? “Innanzitutto – spiega il giornale –, le macchie di sangue gruppo A individuate all’interno della porta della stanza dove è stato trovato il cadavere della ragazza e poi anche su un telefono dell’ufficio. Sangue che non si sa a chi appartenga. Gli esami del DNA, sebbene abbiano riguardato un numero considerevole di persone, hanno escluso altri che erano entrati in contatto con Simonetta nei giorni precedenti al delitto”. Non solo: in quella stanza era presente un secondo telefono, che nessuno però ha mai analizzato. Potrebbero nascondersi lì la verità e, di conseguenza, il nome dell’uccisore di Simonetta Cesaroni, per un cold case che, a distanza di tre decenni, ha ancora più sete di giustizia.

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