Trecentoquarant’anni fa, il 15 luglio 1683, un solitario ufficiale ottomano si avvicinò alle mura di Vienna recando una proposta di resa. Il messaggio fu consegnato a un soldato croato ed era di questo tenore: “Accettate l’Islam e vivete in pace sotto il Sultano! Oppure consegnate la fortezza e vivete in pace sotto il Sultano come Cristiani; e se qualcuno lo preferisce lasciatelo partire in pace portando i propri beni con sé! Ma se voi resistete, allora morte, desolazione e schiavitù saranno il fato di tutti voi!”



Questa minaccia non era vuota. Dietro l’ufficiale turco vi era un esercito imponente di circa 100mila uomini, senza contare gli irregolari e gli addetti alle salmerie, dotati di artiglieria d’assedio e di manipoli di eccellenti genieri. La guarnigione della città contava appena 12mila uomini e altri 37mila soldati dell’esercito imperiale manovravano fuori delle mura di Vienna in uno stato di disperante inferiorità numerica. Le probabilità di vittoria sul turco erano minime, ogni resistenza apparentemente futile. Se Vienna fosse caduta senza combattere, le vite dei viennesi sarebbero state sicuramente risparmiate. Checché ne dica una tradizione anti-islamica, gli ottomani tenevano fede ai patti, soprattutto quando si trattava di conquistare la capitale di un impero. E c’è da chiedersi come avrebbero reagito i viennesi se avessero avuto la nostra mentalità, come risulta dal dibattito in corso per la guerra in Ucraina: la pace è sempre il bene supremo, resistere alla forza genera solo altra violenza e nuove distruzioni e, in fondo, i bambini austriaci avrebbero potuto vivere felici anche sotto la dominazione ottomana che, tra l’altro, garantiva una tolleranza religiosa inusuale nell’Europa cristiana di allora.



Una svolta nella storia moderna

E allora, perché il comandante della piazzaforte, conte Ernst Rudiger von Starhemberg, respinse la proposta, facendo iniziare l’assedio più importante e decisivo della storia moderna? Per la libertà propria e di tutti; per non arrendersi alla violenza e alla sopraffazione.

Ripercorrendo mentalmente la storia militare dai tempi più antichi non si riesce a trovare un episodio così decisivo dei secoli a venire come l’assedio di Vienna. Forse solo la battaglia di Maratona del 490 a. C. dove gli ateniesi sconfissero un corpo di spedizione persiano, può avere la stessa valenza: una città contro un impero per aver rifiutato di offrire terra e acqua al Gran Re. Atene rifiutò una pace comoda e un po’ umiliante per dare origine alla cultura occidentale. Tutto, tutto ciò che siamo, iniziò dalla piana di Maratona e, dieci anni dopo, da quei luoghi che sono diventati mito: Termopili, Salamina, Platea.



Persino Lepanto (1571) sbiadisce davanti a Vienna, perché i suoi effetti furono di lunga scadenza, con la fine della talassocrazia ottomana e i turchi vinsero la guerra di Cipro.

Vienna 1683, oggi, è importante per capire come gli uomini e le donne di allora combatterono, soffrirono e morirono per dare una speranza all’Europa. Ma, per capire cosa fu l’assedio di Vienna bisogna riportarsi all’oggettività della storia militare e questo per sfuggire a due tentazioni uguali e opposte: da una parte la mitizzazione priva di riscontri e, dall’altra, la sua svalutazione, nata in opposizione alla suddetta mitizzazione.

Il film di Martinelli

Spieghiamoci meglio. Per mitizzazione si intende quella lettura dei fatti spesso ricorrente nel mondo cattolico che, da sempre, ha scarso interesse per la storia militare in quanto la guerra è brutta e cattiva, il che è senz’altro vero. Non conoscendo i fatti si ricorre al mito, al miracolo, quando la vittoria è il risultato combinato di diplomazia, organica, logistica, strategia, tattica e di tutte le risorse di un Paese, sia economiche che culturali. Se si dimenticano questi fattori nascono fenomeni imbarazzanti come il film 11 settembre 1683 di Renzo Martinelli dove, già dal titolo, emerge il forzato parallelo con gli attentati del 2001. La battaglia, infatti, è del 12 settembre che, nel calendario liturgico è ricordata con la festa del Santissimo Nome di Maria. Nel film l’imperatore Leopoldo è un imbecille, Sobieski somiglia moltissimo a Obelix e padre Marco d’Aviano è una specie di Gandalf. Una grande occasione perduta.

Molti storici, anche di grande valore, tendono invece a demitizzare l’assedio di Vienna, affermando che i turchi, comunque, non avrebbero conquistato l’Europa in quanto l’esercito francese di Luigi XIV sarebbe stato un ostacolo insuperabile. In realtà persino i francesi subirono alcune sconfitte dai turchi durante l’assedio di Candia e, in ogni caso, un’Europa senza l’impero asburgico, senza Maria Teresa, senza Francesco Giuseppe, Strauss e quel miracolo che fu Vienna e la cultura mitteleuropea non sarebbe semplicemente Europa.

Nel corso di queste tre puntate ripercorreremo, quasi giorno per giorno, le fasi dell’assedio e la battaglia diplomatica che portò all’alba del 12 settembre 1683.

Mehemet IV e il summit del 1682

Dobbiamo perciò tornare a un anno prima, al 6 agosto 1682, giorno in cui si tenne un decisivo incontro tra Mehemet IV e i più alti rappresentanti del governo ottomano. La situazione dell’impero ottomano era quella di un grande organismo multinazionale dove diverse etnìe e religioni convivevano sotto il dominio della corte di Istanbul. Militarmente ancora formidabile, l’esercito ottomano non aveva mai perso una guerra. Certo, aveva subito qualche sconfitta, anche recente, ma la sua diplomazia era sempre riuscita a strappare concessioni al tavolo della pace, facendo capire alle controparti che, come dicono gli avvocati di tutto il mondo, “una brutta transazione è meglio di una causa vinta”. Gli ottomani da sempre opponevano tutta la propria forza nei confronti di un nemico alla volta. Se combattevano contro Venezia erano in pace con gli Asburgo e viceversa e ogni avversario partiva già sconfitto a metà, per l’evidente sproporzione di forze.

L’impero era tuttavia in crisi, sempre più arretrato rispetto a un’Europa occidentale e centrale che, dopo la guerra dei Trent’anni, stava rifiorendo ed era sempre più all’avanguardia nella scienza e nella tecnica. D’altra parte uno Stato come quello ottomano, fondato sulla guerra e sulla conquista militare, aveva bisogno di continuare ad attaccare i propri vicini per salvaguardare l’ordine interno e sedare i turbolenti giannizzeri, corpo speciale del sultano, guerrieri straordinari ma pronti a ribellarsi al sovrano in mancanza di adeguati riconoscimenti economici. Ribellioni che iniziavano rovesciando le marmitte (qazan), in quanto si rifiutava il nutrimento che arrivava loro dal sultano.

Quel 6 agosto 1682 venne deciso di attaccare l’impero asburgico, anche se il trattato di pace scadeva nel 1684. L’impero era stato indebolito da un’epidemia di vaiolo nel 1681 ed era notoriamente in gravi difficoltà economiche. Inoltre in Ungheria infuriava la ribellione di Imre Tokoly e dei suoi Kuruczok (crociati) calvinisti e sottoposti alla repressione dell’imperatore Leopoldo. Inoltre lo stesso Luigi XIV sollecitava cinicamente un’offensiva turca al fine di spingere Leopoldo a cedergli le province germaniche sul Reno, nella più completa incoscienza o imprevidenza di quelle che potevano essere le conseguenze.

L’esercito fu radunato nel 1682 ma l’obiettivo non venne svelato se non nel gennaio del 1683. I preparativi compiuti dal Gran Vizir Kara Mustafà furono, a detta di tutti i testimoni, semplicemente sbalorditivi. L’armata che si concentrò ad Alba Reale comprendeva, oltre all’esercito ottomano, anche i crociati ungheresi e i tatari di Crimea per un totale di 150mila uomini. Il 10 luglio l’immenso esercito era sulla Raab e le esigue schiere asburgiche, guidate da quel Carlo di Lorena che proprio alla Raab aveva avuto il suo battesimo del fuoco, non poterono che ritirarsi, badando a non farsi aggirare dai tatari.

La battaglia diplomatica

Fu a questo punto che iniziò la battaglia diplomatica che vide, tra i protagonisti, papa Innocenzo XI e il suo delegato speciale, padre Marco D’Aviano, conosciuto in tutte le corti d’Europa per l’eloquenza, la santità e le doti taumaturgiche. Fu padre Marco a far si che il principe elettore Massimiliano Emanuele di Baviera si rappacificasse con l’imperatore Leopoldo. Ed era nota la devozione di Carlo di Lorena, comandante dell’esercito imperiale, per il padre cappuccino.  Nel frattempo lo spionaggio asburgico scopriva i traffici intercorsi tra l’ambasciatore francese a Varsavia e i magnati polacchi, tesi a impedire un’alleanza di Sobieski con l’Austria. Il 31 marzo 1683 la Dieta dei nobili polacchi metteva però a disposizione di Sobieski 40mila uomini per salvare Vienna in pericolo. La diplomazia francese era stata sconfitta su tutta la linea e una nuova Lega santa, simile a quella di Lepanto, faceva la sua apparizione sui campi di battaglia europei.

La lentezza dell’avanzata ottomana permise ai difensori di Vienna il rafforzamento delle fortificazioni e l’evacuazione della corte imperiale, avvenuta con calma e dopo che l’imperatore Leopoldo aveva dato tutte le istruzioni necessarie per il tempo della sua forzata assenza. La piazza era comandata dal conte Ernst Rudiger von Stahremberg, che subito mobilitò la popolazione alla difesa. Carlo di Lorena si ritirò al di là del Danubio, inviando parte del proprio esercito a rafforzare la guarnigione.

Il 16 luglio iniziò il bombardamento mentre i tatari devastavano tutta la regione incendiando, uccidendo, rapendo e violentando come da secoli avveniva in quelle terre sventurate. Era l’arma del terrore, impiegata senza risparmio e senza pietà per piegare la resistenza delle popolazioni e dell’imperatore.

(1 – continua)

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