All’inizio di settembre del 1683 Vienna era allo stremo. A partire dall’ultima settimana di agosto i difensori fecero partire salve di razzi nella notte per avvertire che la città stava per cadere. Radunare un’armata di 75mila uomini era stata una grande impresa ma ci era voluto tempo, troppo tempo e tanti sforzi sarebbero stati inutili anche per un’ora sola di ritardo. “Vienna laborat in extremis” scrisse l’imperatore Leopoldo a padre Marco D’Aviano, aggiungendo “Qui confidit in Domino non confunditur” (chi confida nel Signore non resterà confuso).



Il 2 settembre una grossa mina fece crollare parte del Bastione del Palazzo e von Stahremberg, dopo che i difensori avevano subito pesanti perdite, dovette cedere il rivellino, ossia la fortificazione triangolare che si trovava davanti al bastione. Due giorni dopo un’altra mina faceva crollare un’ulteriore porzione del Bastione del Palazzo causando una breccia di quasi dieci metri. Di nuovo i giannizzeri si spinsero nella breccia con coraggio sovrumano, ma gli austriaci risposero con identico valore e i turchi non passarono. La crisi era però gravissima e se l’assalto avesse avuto un minimo successo la municipalità avrebbe richiesto la resa.



Nella storia militare vi sono momenti come questo: sarebbe bastato un lievissimo spostamento dell’equilibrio, un successo o una sconfitta anche minimi e tutto sarebbe cambiato. Vienna conquistata, l’esercito polacco e imperiale sconfitto senza nemmeno aver combattuto, perché vi sarebbe stato un tracollo morale che avrebbe posto fine a un’alleanza già di per sé fragile. Dopo una pace vantaggiosa per gli ottomani l’impero asburgico sarebbe crollato e Luigi XIV avrebbe avuto la meglio, impossessandosi dei principati tedeschi sulla riva destra del Reno, acquisendo i voti dei Grandi Elettori che l’avrebbero eletto imperatore. Quale sarebbe stato l’esito di uno scontro tra la Francia di Luigi XIV e l’impero ottomano? Sicuramente l’esercito francese era di una categoria qualitativamente superiore, ma le risorse dell’impero ottomano erano quasi illimitate. Anche il destino dell’Italia settentrionale sarebbe stato diverso e si possono immaginare le Cinque Giornate di Milano combattute contro i giannizzeri anziché contro i granatieri croati. A parte queste boutades ucroniche l’Austria di Maria Teresa, di Francesco Giuseppe e di Mozart non sarebbe esistita.



Gli errori di Mustafà

Il destino dell’Europa si giocò in quella settimana e Kara Mustafà commise un errore dietro l’altro. Invece di attaccare nuovamente il bastione del Palazzo, i genieri fecero saltare il bastione Lobel l’8 settembre, senza riuscire a sfondare. Kara Mustafà sapeva già da tempo dell’arrivo di un esercito di soccorso ma, contrariamente a quanto avrebbe fatto qualsiasi generale europeo, aveva predisposto scarsi lavori di fortificazione a protezione dell’accampamento. Il Visir decise di sfidare l’esercito cristiano in campo aperto ma commise un ulteriore errore madornale, utilizzando per la battaglia campale non più di 60mila uomini, mentre ad altre decine di migliaia venne ordinato di continuare l’assedio, forse nella speranza di conseguire un trionfo che appariva vicinissimo. In tal modo, però, rinunciò alla propria superiorità numerica e non solo: fece appiedare parte della propria cavalleria per dare rinforzo alle linee della propria fanteria.

L’esercito cristiano era ormai concentrato a Tulln e pronto a muovere. L’ultima Messa solenne fu celebrata da padre d’Aviano l’8 settembre, festa della Natività della Vergine, e Sobieski fece da chierichetto, davanti ai generali e alla migliore nobiltà dell’Europa centrale, in ginocchio in un’ora decisiva per la storia dell’Occidente. Il 9 l’esercito raggiunse il Wienerwald, le colline boscose a ovest di Vienna, quel “bosco viennese” che avrebbe ispirato a Johann Strauss una delle sue opere più famose e commoventi per la gioia di vivere che la pervade.

Quelle colline non ebbero nulla di grazioso o di romantico per i generali e i soldati cristiani che, il 10 settembre, attraversarono il bosco in perfetto ordine, pronti alla battaglia, raggiungendo la vetta del Kahlenberg e le posizioni di partenza lasciate quasi del tutto sguarnite dai turchi. L’ala sinistra era comandata da Carlo di Lorena ed era composta da fanteria e cavalleria imperiale affiancata dal contingente sassone; al centro vi erano bavaresi e franconi comandanti dal principe di Waldeck; alla sinistra i polacchi di Sobieski. Molto faticosa fu la marcia dei pezzi di artiglieria campale, essenziali per avere la supremazia di fuoco contro i turchi.

L’11 settembre fu un giorno di pioggia e di vento e i comandanti cristiani poterono contemplare per la prima volta, dalle pendici del Kahlenberg, Vienna assediata e l’enorme accampamento che lo cingeva. Sobieski rimase turbato dall’esame del campo di battaglia, perché il settore assegnatogli era sì in discesa, ma era rotto da creste e canaloni e non si prestava a far caricare la sua cavalleria se non dopo diverse centinaia di metri. Inoltre, buona parte del contingente polacco era in ritardo per la difficoltà del terreno incontrato. Kara Mustafà aveva schierato il proprio esercito per contrastare quello imperiale con un’ala sinistra praticamente campata in aria e l’ala destra appoggiata ad Heiligenstadt e Nussdorf.

L’attacco degli europei contro i turchi

Il 12 mattina, Sobieski fece dire Messa un’ultima volta da padre Marco tra le rovine della chiesa dei Camaldoliti. Poi, finalmente, cominciò l’attacco: all’ala sinistra, scendendo dal Kahlenberg e sfiorando il Danubio, muoveva Carlo di Lorena. Tra i molti nobili presenti, vi era un giovane di bassa statura, ma pieno di determinazione, deciso a vendicare il proprio fratello morto in combattimento qualche settimana prima; era Eugenio di Savoia, destinato a diventare uno dei più grandi condottieri della storia. Lorena fu il primo a muovere contro i voivoda di Moldavia e di Valacchia, nonché contro le truppe europee del sultano, che furono allontanate dal Danubio e costrette a ritirarsi verso ovest, addosso al centro dello schieramento, dove si trovava Kara Mustafà, sottoposto a tremenda pressione da parte della poderosa fanteria sassone e bavarese. L’esercito europeo manovrò con metodo e calma, alternando l’urto della cavalleria col fuoco di fanti e artiglieria.

I turchi furono obbligati a retrocedere fino al proprio accampamento e altrettanto fecero i polacchi fino a raggiungere il terreno adatto per una carica di cavalleria. Fu a questo punto che Sobieski lanciò una carica travolgente contro i tatari, spazzandoli via dal campo di battaglia. Erano le tre del pomeriggio e la sorte dell’esercito turco era segnata irrevocabilmente, poiché i difensori di Vienna, non paghi dell’eccezionale difesa fin qui compiuta, effettuarono una violentissima sortita. Gli ottomani provarono a resistere poi cedettero e lo stesso Kara Mustafa si salvò con la fuga. Nessuno inseguì gli ottomani: gli imperiali entrarono subito in Vienna, libera dall’assedio, mentre Sobieski saccheggiava l’accampamento turco.

Nonostante i dissidi l’alleanza tenne, sempre grazie all’opera diplomatica e spirituale di padre Marco d’Aviano e la coalizione coinvolse Venezia che cooperò dal mare. Kara Mustafà venne nuovamente sconfitto a Parkany il 7 ottobre e il 25 dicembre il suo accampamento fu raggiunto da un inviato del sultano che gli intimava di riconsegnare i sigilli della sua carica, oltre che da un boia che lo strangolò seduta stante. La grande guerra contro il Turco continuò di vittoria in vittoria fino al trionfo di Zenta del 1697, capolavoro tattico di Eugenio di Savoia. E, a quel punto, per la prima volta nella storia, diplomatici ottomani si sedettero al tavolo delle trattative a Karlowitz nel 1699 e ammisero la propria sconfitta. Nel 1717 una nuova vittoria di Eugenio di Savoia a Belgrado metteva fine per sempre alla minaccia turca.

Giovanni Paolo II, Vienna 1983

Il 12 settembre è ancora oggi ricordato nel calendario liturgico con la festa del Nome di Maria ma la memoria di quei giorni drammatici ed esaltanti era ancora presente e viva quarant’anni fa, quando San Giovanni Paolo II, il 19 settembre 1983, tenne un discorso nella piazza degli eroi a Vienna. Un discorso che offre un’interpretazione storica quanto mai attuale.

“È giusto – disse il papa – ricordare con ammirazione i difensori e i liberatori di Vienna che hanno opposto resistenza all’attacco con una collaborazione esemplare. Noi siamo soprattutto consapevoli del fatto che la lingua delle armi non è la lingua di Gesù Cristo e neppure la lingua di sua Madre, alla quale allora come oggi ci si appella come aiuto dei cristiani. Ci sono casi in cui la lotta armata è una realtà inevitabile a cui in circostanze tragiche non possono sottrarsi neanche i cristiani. Ma anche in questo caso è vincolante l’imperativo cristiano dell’amore per il nemico, della misericordia: colui che è morto sulla Croce per i suoi carnefici trasforma ogni mio nemico in un fratello, cui spetta il mio amore, anche se mi difendo dal suo attacco. Così questo Giubileo non sia il festeggiamento di una vittoria bellica bensì il festeggiamento di una pace donataci oggi in contrasto, annunciato con gratitudine, con un avvenimento che era legato a una così grande sofferenza. Dobbiamo dimostrarci degni della libertà che allora è stata difesa con così grande impegno.

Voi cristiani in Austria e in tutti gli altri Paesi del Continente! Mostratevi degni di quei fratelli nella fede che anche oggi devono subire persecuzioni per la loro convinzione religiosa e per il loro modo di vivere il cristianesimo, e che devono fare grandi sacrifici. Abbiate il coraggio e la forza – che vi vengono dalla nostra responsabilità cristiana – di impegnarvi anche nella politica e nella vita pubblica per il bene dell’uomo e della società nel vostro Paese e oltre le frontiere.

Nella Croce sta la speranza di un rinnovamento cristiano dell’Europa, ma solo se i cristiani stessi prendono sul serio il messaggio della Croce. Croce vuol dire: dare la vita per il fratello per salvare, con la sua, la nostra vita. Croce vuol dire: l’amore è più forte dell’odio e della vendetta: dare dà gioia più che ricevere. Impegnarsi è più efficace che chiedere. Croce vuol dire: non c’è naufragio senza speranza, non esiste buio senza stella. Nessuna tempesta è senza porto sicuro. Croce vuol dire: l’amore non conosce limiti: inizia col tuo prossimo ma non dimenticare chi è lontano. Croce vuol dire: Dio è sempre più grande di noi uomini, è la salvezza anche nel più grande fallimento. La vita è sempre più forte della morte.

Come seguaci di Cristo, cari fratelli e sorelle, voi siete chiamati a dare una risposta liberatoria e una speranza agli uomini di oggi che vivono fra molteplici minacce e turbamenti, con la forza che vi deriva dalla Croce di Cristo, con la vostra parola piena di speranza e con l’esempio cristiano di vita. E curate soprattutto la preghiera. Pregate come hanno fatto i cristiani nella sofferenza del 1683. … Raccoglietevi con me in quest’ora sotto il segno della Croce, che oggi abbiamo innalzato in questa piazza per quella vera crociata dell’impegno cristiano e della preghiera. Come allora il beato Papa Innocenzo XI chiamava i popoli minacciati alla Santa alleanza, così oggi il suo successore al soglio di Pietro si appella alle vostre coscienze: la battaglia spirituale per una sopravvivenza in pace e libertà richiede lo stesso impegno e coraggio eroico, la stessa disponibilità al sacrificio, la stessa forza di resistenza con la quale i nostri Padri salvarono allora Vienna e l’Europa! Prendiamo questa decisione e affidiamola al simbolo della Croce di Cristo, del Signore di tutta la storia poiché nella sua Croce c’è veramente speranza e salvezza!”

(3 – fine)

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