La vicenda che interessa monsignor Viganò, ex nunzio apostolico della Santa Sede negli Stati Uniti d’America, presenta – oltre che chiari spunti di cronaca ecclesiastica – anche diversi margini di esemplarità. Prima è però importante circoscrivere i fatti. Il Dicastero per la dottrina della fede ha convocato Carlo Maria Viganò a Roma, affinché possa “prendere nota delle accuse e delle prove circa il delitto di scisma di cui è accusato (affermazioni pubbliche dalle quali risulta una negazione degli elementi necessari per mantenere la comunione con la Chiesa cattolica: negazione della legittimità di papa Francesco, rottura della comunione con Lui e rifiuto del Concilio Vaticano II)”. Viganò ha rifiutato di comparire davanti al tribunale del Papa, asserendo che “la formulazione stessa dei capi d’accusa confermi le tesi che ho più e più volte sostenuto nei miei interventi. Non è un caso che l’accusa nei miei confronti riguardi la messa in discussione della legittimità di Jorge Mario Bergoglio e il rifiuto del Vaticano II: il Concilio rappresenta il cancro ideologico, teologico, morale e liturgico di cui la bergogliana ‘chiesa sinodale’ è necessaria metastasi”.



Occorre chiarire che il presule di Varese, dopo aver prestato per diversi decenni un servizio costante e infaticabile nella diplomazia della Santa Sede, ha intrapreso – già a partire dal 2016 – diverse azioni tese a screditare l’immagine di papa Francesco, stigmatizzandolo come eretico, come usurpatore, come mano lunga di un disegno internazionale teso a far implodere la Chiesa – e la sua dottrina – dall’interno.



Sulla realtà e sulla gravità delle parole di Viganò si pronuncerà il tribunale pontificio. Quel che è certo è che la parabola di un ex nunzio, che si ritrova agli antipodi del pontefice per questioni di carattere dottrinale e sociale, evoca per tutti la questione del rapporto tra verità e unità. Viganò, infatti, afferma di agire in conformità alla verità, ma la verità non è soltanto un assioma intellettuale da supportare, la verità si forgia sempre in un rapporto, in un’unità con l’esperienza che la genera. Nel momento in cui Viganò prende le distanze dal Papa, le sue stesse ragioni diventano più fragili, più sole. Il vero non è una proposizione logica e consequenziale, strettamente derivante da una dottrina: il vero – diceva Ireneo di Lione – è quel pezzo di vita che chiunque può scoprire facendo una determinata esperienza. La verità è un’oggettività che ogni soggetto è destinato a scoprire. Il punto è il metodo: come si scopre la verità? Leggendo un libro e applicandolo alle circostante correnti?



San Paolo, nella prima lettera ai Corinti, racconta di un problema che affliggeva la prima comunità ecclesiale: mangiare o non mangiare le carni immolate agli idoli che venivano rivendute al mercato cittadino? C’erano coloro che sostenevano che mangiare quelle carni significasse legittimare l’idolatria, mentre altri che affermavano che gli idoli non esistono e che, qualunque cosa fosse loro offerta, restava neutra per chi la voleva acquistare. Paolo sorprende tutti e sostiene che è vero che gli idoli non esistono, ma che è ancor più vero che – mangiando quella carne – le persone capirebbero che i cristiani legittimano certe pratiche. Dice l’Apostolo che il criterio dell’agire umano non è soltanto la conoscenza, la verità che sappiamo, ma è anche la carità. Il vero è scoperto dall’uomo non soltanto con la conoscenza, ma anche e soprattutto con l’amore. Don Luigi Giussani amava dire che non si possono scindere ragione e affezione. Le ragioni di Viganò potrebbero essere anche le più nobili – lo vedrà la Santa Sede –, ma il modo in cui sono state poste ha tradito, di fatto, l’onere della carità.

Si tratta di verità senza relazioni, senza unità. Nell’islam il vero non è determinato solo dalla coscienza del singolo, ma dal giudizio di tutta la comunità. L’elemento individuale, in ogni tradizione religiosa, non può mai essere scisso dall’elemento comunitario. Ma allora, si obietterà, che fare quando ci troviamo di fronte ad una posizione nella comunità che non ci piace? Tacere per amore dell’unità?

La Chiesa, forse non tutti lo sanno, disciplina anche il dissenso perché ne riconosce la bontà e la forza. Un documento di più di trent’anni fa, chiamato Donum Veritatis, dice al numero 30: “Se le difficoltà [a comprendere ed accettare alcune posizioni della Chiesa] persistono, è dovere del teologo [e di ogni credente] far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con cui è presentato. Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora contribuire ad un reale progresso, stimolando il Magistero a proporre l’insegnamento della Chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato. In questi casi il teologo eviterà di ricorrere ai ‘mass-media’ invece di rivolgersi all’autorità responsabile, perché non è esercitando in tal modo una pressione sull’opinione pubblica che si può contribuire alla chiarificazione dei problemi dottrinali e servire la verità”.

In ultimo deve essere vivo, nel credente come nel teologo, che Dio non abbandona mai la Sua Chiesa e che lo Spirito indica sempre con forza i passi da seguire.
D’altronde, pretendere che sia lo Spirito ad obbedire alle nostre teorie, invece di essere noi a seguire Cristo, non solo sarebbe ridicolo e antistorico, ma manifesterebbe platealmente un peccato contro lo Spirito Santo. Una specie di peccato che tutti coloro che dialettizzano meschinamente con l’autorità rischiano di compiere. Non solo verso la fede, ma anche – e purtroppo – verso la loro vita.

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