Per come era via via peggiorato il clima nei mesi, davvero pochi possono proclamarsi realmente sorpresi del procedimento canonico contro l’ex nunzio apostolico monsignor Carlo Maria Viganò e della decisione adottata presso il Dicastero per la dottrina della fede, che sancisce una scomunica da tempo ventilata da e tra studiosi e che lo stesso interessato sembra aver fatto poco per scongiurare.
Il diritto canonico è stato (e probabilmente è e sarà) un formidabile serbatoio di contenuto per le società civili. Storicamente si è rivelato la forma di sopravvivenza a un tempo nuovo per la giurisprudenza romana, di cui le leggi imperiali cristiane furono incarnazione tardiva quanto peculiare. Nonostante tutte le contraddizioni e le iniquità tipiche di quella giurisdizione, l’Inquisizione rappresentò a lungo un paradigma di organizzazione universale (extra-statale) del giudizio. In tempi più recenti, il diritto canonico è stato un utilissimo tertium comparationis per mettere a confronto common law anglosassone (efficacia della consuetudine, vincolatività ed elaborazione del precedente) e civil law continentale (garanzie formali promulgate da un vertice, favore per la scrittura contro la natura almeno parzialmente aleatoria dell’oralità).
Senza la pace di Augusta e quella di Vestfalia non avremmo mai compreso le opportunità della concordia tra Stati e nemmeno i rischi delle libertà giuridiche, che sembrano spesso essere riconosciute a comunità non già di liberi ed eguali, ma di “simili”, accomunati dalla comune soggezione alla medesima autorità. Stesso dicasi per la teologia politica, ben prima che Schmitt la elevasse a storia del pensiero nel Novecento: difficilmente ci saremmo interrogati sulla natura della sovranità e sugli indicatori che ne attestano la crisi.
Il diritto canonico deve poi intestarsi una specifica forma attuativa della prudenza valutativa: lo strepitum iudicii, la tendenziale ripulsa verso lo scandalo e il clamore del processo. Laddove non sia stato utilizzato ipocritamente (pur successo: tacendo, circoscrivendo, escludendo quel tasso di pubblicità che non può non appartenere al giusto processo), il timore per lo strepitum iudicii insegna un approccio ai fatti di causa, un rifiuto della divulgazione sbraitata, della famelica sostituzione dello strepito, appunto, al giudizio stesso.
Queste considerazioni forse possono fornirci qualche indicazione pratica sul caso di Viganò, scomunicato latae sententiae (cioè anche se il provvedimento non gli sia materialmente riportato, “riferito”) per scisma. Dietro la astratta nozione codicistica dello scisma, qui si stagliano i comportamenti concreti dell’aver rifiutato di riconoscere il pontefice e a questi sottomettersi, oltre che di aver ripetutamente negato il Concilio Vaticano II.
Quanto al primo aspetto, la polemica ha ormai estenuato per primi (non lo ammetterebbero mai, probabilmente) quelli che la fomentarono, negando legittimità all’elezione pontificia di Francesco e nelle versioni più pulp e scanzonate accostandolo variamente al demonio, a Lutero, a un antipapa e all’anticristo. Per tutte le convulsioni che si accavallarono tra la rinuncia di Benedetto XVI e l’elezione di Francesco, il trauma e lo smottamento erano comprensibili e fondati. Si è passati però troppo rapidamente a uno sciocchezzaio sedevacantista, che nulla ha a che vedere con le radici storiche di quel filone teologico. La nuda verità a volte abbisogna della semplicità di un Pascal: tanti dei più intransigenti sono stati spiazzati, delusi o contrastati dal magistero di Francesco. Questo è innegabile, quanto è innegabile che quella parte di opinione pubblica cattolica sia difficilmente misurabile. L’intellettualità laica l’ha sovente bistrattata per ignoranza, per oltranzismo, come se fosse irricevibile subumanità.
Forse occorreva capire da dove venisse quello sviamento, e si sarebbe compreso che le grandi agenzie dell’informazione hanno usato lo scandalismo e la gigantografia per ogni aspetto del Bergoglio uomo e pastore: il papa green delle lettere encicliche, quasi il militante internazionalista sui temi migratori, il tribuno della tradizione su procreazione e gravidanza, il pacifista antiatlantico sugli scenari di guerra. Se tutti e indistintamente tutti si abituano a un linguaggio, se tutti portano la stessa maschera, è inevitabile che a maschera tolta viso e voce rischino di essere ormai inesorabilmente deformati.
In fondo, l’ostinata e faziosa astoricità con la quale si guarda ormai al Concilio Vaticano II è il logico presupposto di uno scadimento nella voglia di confronto sincero e a largo raggio. I documenti preparatori del Concilio non avevano molto dell’immaginario collettivo e speranzoso che il cattolicesimo proprio col Concilio andava abbracciando. Quelle bozze furono manifestamente rigettate. Per i credenti, i padri conciliari furono guidati dallo Spirito Santo. Laici, scettici e razionalisti, sempre che muniti di rispetto, al più dovrebbero dire che la Chiesa rifiutò (e finalmente) di mancare l’appuntamento con quell’epocale momento sociale e agì di conseguenza e con rettitudine. Si parla sempre di meno dei testi del Concilio, si parla sempre di più di come dovrebbe essere interpretato: l’interpretazione crea la prassi della norma, ma come si fa ad interpretare se non si guarda più all’oggetto da cui l’attività interpretativa deve partire?
Liquidazionisti di ogni risma ormai più o meno direttamente trattano il Concilio da insopportabile incidente presessantottino. Chi ne difende la lettera, però, tante volte omette di misurarsi col vero dramma della questione: che un patrimonio documentale così forte e fecondo è da tempo obliato, misconosciuto, scarsamente introiettato nel vissuto e nel credo stesso dei fedeli.
Il timore su questo “affaire Viganò” è già poter prevedere cosa si dirà: per alcuni sarà il monito della curia bergogliana contro i suoi oppositori, per altri sarà il giusto redde rationem contro il clero dei retrogradi. Non rendendosi conto, gli uni e gli altri, che alcune delle proposizioni più infondate di Viganò originano proprio da tale tetro ping pong tra pareti sorde.
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