Per ogni guerriero, di tutte le epoche storiche, di ogni religione e di qualsiasi latitudine, c’è sempre stato ad attenderlo al suo arrivo nell’aldilà una “ricompensa”. Il suo sacrificio, la morte in combattimento, ha sempre significato ottenere un passaggio speciale nel mondo degli dei. Sia esso il Paradiso a cui aspiravano i crociati o la Jannah dei guerrieri arabi di fede mussulmana, il Peng lai dei cinesi o il Valhalla dei norreni. Questo il senso del titolo della prima stagione di Vikings: Valhalla, il sequel della fortunata serie sull’epopea vichinga a cavallo dell’anno mille, prodotta da Netflix e disponibile dal 22 febbraio.
Siamo cento anni dopo le gesta di Ragnar, di Ivar Senzaosse e della regina Lagertha. I vichinghi governano ormai saldamente la Danimarca e la Norvegia e hanno ricche colonie in mezza Europa. Tra queste la più fiorente è quella degli eredi di coloro che avevano conquistato le terre nel sud dell’Inghilterra. Ma i principi inglesi – mal disposti alla convivenza – decidono di eliminare i coloni massacrandoli in una sola notte, suscitando la reazione immediata di tutti i popoli norreni. Sotto la guida del Re Canuto, i vichinghi sbarcano in Gran Bretagna, stringono in assedio Londra e sconfiggono i sassoni. La vittoria però alimenta anche la sete di potere dei vari pretendenti alla guida del nuovo impero e la battaglia tra i capi vichinghi non può che spostarsi a Kattegat, l’antica capitale snodo di ogni passaggio della storia dei popoli del nord.
La novità più significativa rispetto a quanto accaduto cento anni prima durante la guerra sanguinosa tra gli alleati di Ivar e quelli di Lagertha e raccontato nelle sei stagione di Vikings, è la diffusione del cristianesimo tra coloro che hanno conosciuto e adottato la nuova religione durante i loro viaggi nel Mediterraneo. Lo scontro religioso rappresenta così un nuovo motivo di divisione tra chi crede nel nuovo Dio e chi è rimasto fedele a Odino. Le due religioni non riescono a convivere e con il crescere dell’intolleranza aumentano gli episodi di violenza. Proprio a causa di uno di questi episodi giunge a Kattegat un gruppo di giovani groenlandesi, a caccia di alcuni cristiani che si sono macchiati di indicibili violenze sulle loro donne pagane.
Tra i giovani provenienti dal profondo nord si distinguono per abilità e forza i due fratelli Leif e Freydis, figli del famoso capo vichingo Erik il Rosso, scopritore dell’Islanda. Anche i due fratelli – come molti personaggi del racconto – sembrano essere esistiti realmente e in ogni caso sono i protagonisti di alcune leggende vichinghe, in particolare quelle che li individuano come i primi europei che hanno messo piede in Nordamerica. Leif è un navigatore esperto, la sorella una guerriera tenace. Entrambi sembrano sostituire molto bene i protagonisti della serie precedente, ed è chiaro che avranno un ruolo decisivo nelle prossime stagioni. Anche i due attori che li interpretano, l’australiano Sam Corlett e la famosa modella svedese Frida Gustavsson, sono destinati a ripercorre il successo dei due attori di Vikings, Travis Fimmel e Katheryn Winnick.
In realtà per questi giovani guerrieri il Valhalla non è altro che la metafora della gloria. Morire in guerra con coraggio e con la gratitudine dei propri compagni significa legare il proprio nome a imprese che saranno ricordate per sempre. La differenza tra un mercenario e un eroe è tutta qui. Ovviamente non vi è nessun nesso con la guerra a cui stiamo assistendo in questi giorni, e il successo della serie tv, diventata in pochi tempo la più vista sulla piattaforma, non ha relazioni dirette con le vicende ucraine, anche se Netflix è stata la prima ad adottare provvedimenti con la chiusura immediata di ogni attività in Russia.
Eppure Valhalla ci offre una nuova chiave di lettura e ci porta a domandarci per cosa stanno combattendo gli ucraini e per cosa lo fanno i giovani russi inviati da Putin a reprimere nel sangue la resistenza dei loro fratelli. È fuori discussione che la guerra per gli ucraini si riempirà ben presto di figure eroiche, di tante storie e vicende in cui singoli protagonisti si immoleranno per difendere altri commilitoni e civili indifesi, mentre dall’altra parte sarà sempre più difficile spiegare all’umanità le ragioni di questa guerra sbagliata. Putin si avvia a essere ricordato come un despota con le mani insanguinate, ma agli occhi del suo popolo sarà ricordato per sempre come quello che ha lasciato morire migliaia di giovani russi – che si stanno chiedendo “perché facciamo questo?” – senza alcuna risposta, senza alcuna possibilità di diventare degli eroi.
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