Vincent Lambert non è un malato terminale, non sta morendo, altrimenti sarebbe un malato terminale la cui agonia di morte durerebbe da 11 anni. Vincent Lambert è invece un malato e basta. Vincent Lambert è tetraplegico in stato di coscienza minima, capace di respirare da solo con regolare ritmo sonno-veglia. L’ultima perizia medica indipendente consegnata ai giudici parla di “stato vegetativo cronico irreversibile”; la stessa perizia ha riconosciuto che non c’è alcun accanimento terapeutico o ostinazione irragionevole nei suoi confronti. Si tratta dell’usuale caso come quello di Eluana Englaro dove un vuoto legislativo sul tema, finisce per mettere tutto in mano a giudici che la pensano inequivocabilmente allo stesso modo, che sia l’Inghilterra, la Francia e l’Italia: la qualità di vita del malato non è accettabile e la vita va dunque interrotta. Secondo Roberto Mauri, responsabile della casa di accoglienza La Meridiana di Monza, dove sono ricoverati malati nelle condizioni di Lambert, “laddove dove manca una specifica dichiarazione da parte del soggetto, e se oggi l’interessato non è in grado di fare dichiarazioni di richiesta di fine vita, questa delega viene presa da altri (nel caso specifico dalla moglie e dai sei fratelli, ndr). Noi non abbiamo mai avuto queste richieste, paradossalmente ne abbiamo di contrarie: sono richieste di accanimento terapeutico da parte di familiari che sperano nel miracolo, anche laddove c’è una situazione molto compromessa. L’accanimento terapeutico però è altrettanto scorretto che staccare la spina” ci ha detto. Ma, aggiunge, “se nel caso in questione il signor Lambert respira autonomamente, si alimenta con sondino e dove non c’è una macchina che lo tiene in vita, in mancanza di una dichiarazione ritengo totalmente errato che qualcuno si arroghi il diritto di decidere della sua vita. Ogni situazione ovviamente va valutata sul campo, ma se una persona è in stato di minima coscienza non soffre e non ci sono dichiarazioni, non è corretto quanto si pensa di fare”.



UN LUOGO DI ACCOGLIENZA

Senza entrare negli aspetti legali della faccenda, c’è però una considerazione che va per la maggiore oggi: cioè che se una persona è gravemente malata, non vive una vita degna di essere vissuta. È così? “Purtroppo siamo in un momento culturale dove vanno per la maggiore soprattutto sui media questi ragionamenti.  In realtà nel momento in cui al malato e alla famiglia viene garantita una qualità di vita, di assistenza e direi anche di amore sufficienti, nessun familiare ti chiede di staccare la spinta piuttosto chiedono un accanimento. Però occorre un luogo di cura dove viene dato supporto alla famiglia. Personalmente vedo familiari allo stremo che se non avessero un luogo dove condividere con altri la loro situazione, con gli psicologi per esempio, fatalmente arriverebbero a chiedere di far morire il malato. Il nostro welfare deve mettere a disposizione di queste persone un sistema di cure corretto”.



(Paolo Vites)

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