Gabriella Orazi, in un’intervista a Repubblica, ha raccontato il trattamento letale che Vincenzo Campanile, l’anestesista del 118 di Trieste che l’altro ieri è stato condannato dalla Corte di assise a 15 anni e 7 mesi di reclusione, riservò a sua madre, l’ottantunenne Maria Kupfersin cinque anni fa. “Era la mattina del 27 ottobre 2017. Mio padre aveva trovato mamma riversa in corridoio, quindi ha chiamato l’ambulanza e me. Io, anziché recarmi subito a casa dei miei genitori, ho detto a mio padre che sarei andata direttamente all’ospedale perché la strada era più breve”, ha ricordato.
Il medico, al telefono, tuttavia, le ordinò di non farlo. “Disse che mia madre forse aveva avuto un ictus e che non era il caso di portarla in ospedale, perché forse non ci sarebbe mai arrivata. E nel caso fosse sopravvissuta nel tragitto, non sapeva in quali condizioni”. La donna non voleva arrendersi a questa evenienza, ma l’imputato insistette. “Lo pregai di tenerla in vita finché non fossi arrivata a casa, per stare con lei ancora un po’. La sua risposta mi rimarrà sempre scolpita: “Non posso”. A posteriori credo di aver capito cosa significava”.
“Vincenzo Campanile uccise mia madre con iniezione”. Il racconto di Gabriella Orazi
Vincenzo Campanile, infatti, uccise Maria Kupfersin, madre di Gabriella Orazi, con una iniezione di un potente sedativo, il Propofol. Il medesimo trattamento, secondo quanto emerso dalle indagini, lo avrebbe riservato anche ad altri otto pazienti di una Rsa. La terribile ipotesi è stata confermata anche dall’autopsia effettuata sul corpo della donna. “Quando mi disse che non poteva forse le aveva già iniettato quel farmaco. L’aveva già uccisa. Ma fino a quando non erano uscite le notizie sul giornale, io non avevo sospettato nulla su quanto era successo a mia madre. Perché mi sono sempre fidata dei medici”, ha raccontato la donna.
Nonostante l’ipotesi di reato sia stata confermata, i giudici hanno concesso all’anestesista una attenuante relativa all’aver agito per “motivi di particolare valore morale o sociale”. La figlia della vittima ora spera che nel prossimo grado di giudizio questa venga cancellata. “Quindici anni sono pochi perché nessuno si può arrogare il diritto di vita o di morte sugli altri. Ma comunque non sarà il carcere o i risarcimenti eventuali che noi parenti potremo avere a riportare in vita i nostri cari”.