El Carmelo fa venire in mente luoghi solitari dove ritirarsi eremiti dal mondo. E in effetti lassù sulle Ande, ai tremila metri delle montagne che fanno da confine tra Ecuador e Colombia, El Carmelo – un pugno di abitanti semisconosciuto agli stessi equadoregni – è proprio un puntino isolato sulla carta geografica, ma un puntino che per un giorno, l’ultimo del Giro d’Italia il 2 giugno scorso, è stato a capo del mondo.



Di quello ciclistico, intendo, essendo Richard Carapaz -vincitore del Giro d’Italia 2019 – proprio originario di quel minuscolo paese. Ieri è toccato a Egan Bernal, ventiduenne dallo sguardo mite, abbandonare la Colombia soffocata dal narcotraffico, farsi le ossa in bicicletta fra le colline a vigneto del Canavese -sulle mitiche strade di fango e terra battuta che fecero grandi Girardengo e Coppi – trionfare al Tour de France, la più grande corsa a tappe del mondo.



Ecuador e Colombia: Paesi poveri dove il tasso di analfabetizzazione è inversamente proporzionale alla produzione di coca, la povertà è largamente diffusa così come la ricchezza è nelle mani di pochi, chi può fa le valigie per altri mondi e chi non può, sogna. Non sembri strano che i due vincitori, a distanza di poche settimane uno dall’altro di Giro e Tour, provengano dal Sudamerica che sopravvive in fondo alle classifiche mondiali per qualità della vita. Son cose che possono accadere solo in uno sport nato povero più d’un secolo fa (Luigi Ganna, trionfatore del primo Giro, faceva il muratore e per risparmiare i soldi del treno andava su e giù dalla periferia di Varese, dove abitava, a Milano, dove lavorava, con la sua bici di ferro dalle gomme piene, 15 chili di peso, il doppio di oggi) e che povero – nonostante l’importante vortice di quattrini che oggi lo circonda – in fondo in fondo è rimasto ancora.



Carapaz e Bernal hanno il volto scavato e gli zigomi pronunciati propri di popoli abituati alle alture e alle fatiche. Da ragazzino, il primo accudiva le vacche che rappresentavano tutta la ricchezza di famiglia e salì la prima volta su una sella quando papà Antonio gli recuperò per caso – ma vien da chiedersi se il caso veramente esista – una bicicletta abbandonata tra i rottami d’una discarica. Fu la sua fortuna. All’Arena di Verona, sede dell’ultima tappa del Giro, lo hanno atteso gli anziani genitori che mai avevano lasciato prima l’Ecuador, la moglie, i figli piccoli.

Ieri a Parigi, dopo aver staccato tutti nelle tappe alpine dei giorni precedenti, Bernal ha abbracciato il padre e la fidanzata in un tripudio di connazionali forse meno fortunati di lui. Storie semplici di gente semplice scampata per un pelo alla miseria non perché abbia vinto la lotteria, ma perché ha affrontato la vita senza la paura di doverla ammantare di sudore. Li accomuna la voglia di vivere, di lottare, di gridare in faccia al destino che l’orizzonte del mondo può anche cambiare. Magari faticando sopra i pedali di una bicicletta anche nell’era dei motori. Come il muratore Luigi Ganna cent’anni fa.