Nel giorno in cui l’Ocse segnala il rallentamento del Pil dell’area nel secondo trimestre (+0,5% rispetto al +0,6% dei primi tre mesi del 2019) con una frenata che tocca tutti i principali Paesi, soprattutto quelli europei, Germania compresa (-0,1%, contro un +0,4%) e l’Italia ancora fanalino di coda con la sua crescita zero, il Financial Times ha ieri rilanciato l’indiscrezione (in parte poi smentita dalla portavoce Ue) che la Commissione europea voglia riscrivere il Patto di stabilità e crescita per renderlo più soft. Secondo il quotidiano economico inglese, a Bruxelles starebbe girando un documento, per ora tecnico e informale, che prevede la riscrittura delle regole di bilancio e l’allentamento dei vincoli. È forse venuto il momento di riscrivere il Patto di stabilità e di crescita in chiave più espansiva? “Verrebbe da dire: finalmente e se non ora quando – risponde Sergio Cesaratto, professore di economia politica all’Università di Siena – perché l’Europa ha contribuito a destabilizzare l’economia mondiale. Ma il processo non sarà agevole, i segnali sono ancora timidi, soprattutto in Germania, e l’Italia, alle prese con la crisi di governo, rischia di lasciarsi sfuggire la grande occasione di poter indirizzare la riforma delle regole Ue”.
Procediamo con ordine. Innanzitutto, perché l’Europa ha destabilizzato l’economia mondiale?
Perché finora è stata guidata da un modello di crescita basato sulle esportazioni, un modello che la Germania ha adottato, costringendo un po’ gli altri Paesi ad andarle appresso. Deflazione salariale e austerity hanno significato, e significano, che l’unico sbocco di un euro debole sono i mercati esterni alla Ue, oggi alle prese con tensioni commerciali che ne frenano la capacità di assorbimento, a partire da Usa e Cina. Quindi questo sarebbe il momento opportuno per dismettere il modello tedesco, ripensandolo e orientandolo più sulla domanda interna. Il che significa più giustizia sociale, attraverso salari più alti e spesa pubblica.
E dal lato dell’offerta?
Bisogna puntare su politiche industriali adeguate, su più investimenti e su un nuovo paradigma più inclusivo. Basta con l’idea che la convergenza tra i Paesi europei sia un fatto naturale, perché non è mai stato così. Occorre rilanciare una politica industriale europea, inclusiva di tutte le regioni Ue, non più incentrata solo sull’asse franco-tedesco.
Il Financial Times parla di un piano, per ora solo elaborato a livello tecnico e informale senza alcun avallo politico, in cui si ipotizza la riscrittura delle regole Ue e l’allentamento dei vincoli di bilancio per aiutare crescita, investimenti e paesi in difficoltà. È il segnale di un possibile cambio di passo?
Un simile piano dovrebbe, ovviamente, essere accompagnato da un’azione attiva della Bce, nel senso che, se vengono allentati i vincoli di bilancio, sarebbe un guaio lasciare poi i tassi d’interesse alla mercé dei mercati. La politica fiscale espansiva va sempre accompagnata da una politica monetaria che ribassi, per tutti i Paesi, e non solo per Germania e Francia, i tassi d’interesse. Una ripresa del Qe, per esempio, andrebbe in questa direzione. Quindi l’allentamento dei vincoli dipende dalla politica sui tassi ed è giusto che anche all’Italia, che vuole investire di più sul suo territorio, venga consentito: con i tassi bassi il risparmio sugli interessi può essere utilizzato per fare investimenti, mantenendo costante il rapporto debito/Pil.
Che comunque resterebbe alto, intorno al 130%…
Questo è un altro principio che va fatto passare: non esiste un numero magico.
E la regola sul debito, da ridurre di un ventesimo all’anno fino al 60% del Pil?
Questa è un’altra fiera dell’assurdo. Cambiarla significherebbe riconoscere l’errore di una misura ridicola, ma mortale per qualsiasi Paese, come l’Italia, che avesse tentato una simile riduzione.
Resterebbero da superare le resistenze dei Paesi del Nord Europa e le rigidità di commissari come Dombrovskis. Come convincerli?
A contare in Europa sono i grandi Paesi: se ci stanno Germania, Francia e Italia, e visto che la Spagna fa quello che dice la Germania, a quel punto Olanda e Paesi del Nord non potrebbero fare altro che accodarsi. Il passaggio a un modello, diverso dal passato, non è semplice, ma con lungimiranza e immaginazione si può cominciare a cambiare.
La revisione delle regole e l’allentamento dei vincoli di bilancio potrebbero rappresentare il de profundis definitivo al Fiscal compact?
In un certo senso sì, ma questo dovrebbe avvenire in un quadro di riforma dell’Eurogruppo, che dovrebbe trasformarsi in un luogo di coordinamento delle politiche fiscali. I tedeschi non lo hanno mai voluto, è una cosa per loro troppo keynesiana. Andrebbe invece sancita una riforma in questa direzione, in cui la politica fiscale diventa finalmente uno strumento della politica economica europea.
Ora che la Germania sembra avviata verso la recessione, non potrebbe arrivare proprio da Berlino una spinta decisiva alla revisione di regole e vincoli di bilancio?
Per ora si scorgono timidi segnali, ci vorrebbe una maggiore pressione esterna, anche da parte del Governo italiano. Vediamo come evolverà la nostra crisi, ma avremmo bisogno di un governo, il colore conta poco, che sappia andare in Europa con proposte per nulla radicali, ma in grado di spingere, insieme alla Francia e alla Spagna, in una direzione più keynesiana. Poi, da lì a ottenerla, ce ne passa, perché in Germania non c’è, purtroppo, ancora un’opinione pubblica interna particolarmente sensibile a questo passaggio. E questa è, a mio parere, la vera arretratezza culturale di quel Paese.
L’ipotesi di cui parla il Financial Times può essere letta come un assist, più o meno volontario, per il nascente governo giallo-rosso?
Le crisi ricorrenti in Italia sono già incomprensibili per noi, figurarsi a Bruxelles… No, non la considero un assist, piuttosto il contrario. Un governo giallo-rosso serio dovrebbe dire: agiamo decisi in questa direzione di riforma keynesiana, perché noi siamo l’ultima chance prima di un governo neo-autoritario di Salvini.
Commissione Ue e Bce, diceva all’inizio, dovrebbero lavorare di concerto per rilanciare crescita e investimenti. Che cosa dovrebbero fare?
Intanto la cooperazione tra politica fiscale e politica monetaria porrebbe fine a una delle grandi sciocchezze che è entrata nella costituzione formale e materiale dell’Europa: l’indipendenza della Banca centrale europea, che negli Usa non esiste. La Fed ha infatti come obiettivo la piena occupazione. La Bce non può più avere come unico obiettivo la stabilità dei prezzi, anche se nei fatti con Draghi ha agito in modo molto più serio. E nel caso di un nuovo Qe, rispetto al primo quando sono stati comprati titoli dei diversi Paesi pro quota secondo la partecipazione di ciascuno al capitale della Banca centrale, la Bce dovrebbe comprare più titoli italiani di quelli tedeschi.
Perché?
La spesa per interessi sul debito in Italia è un aggravio pesante, proprio perché lo Stato italiano ha emesso titoli in questi anni a tassi molto alti. Quindi, se la Bce ricomprasse una buona quota di questi titoli, restituendo poi gli interessi all’Italia, il nostro Paese avrebbe un immediato risparmio.
E in cambio?
In cambio per questo extra-aiuto, l’Italia, agendo all’interno di un nuovo quadro europeo, non dovrebbe più essere chiamata a fare ulteriore austerità fiscale – visto che noi la facciamo ininterrottamente dal 1991, e nessun paese ha un record di austerità fiscale pari al nostro -, ma dovrebbe impegnarsi a garantire la stabilizzazione del rapporto debito/Pil.
E i risparmi sulla spesa per gli interessi?
Devono essere investiti per la crescita. Ci vuole, però, un governo autorevole e invece temo che l’Italia stia perdendo un’occasione.
(Marco Biscella)