Non servono nuove regole per combattere la violenza contro le donne, ma più giudici e una formazione migliore. Lo segnala il Sole 24 Ore, pubblicando i risultati di un’inchiesta condotta esaminando proprio procure e tribunali penali di tutta Italia, oltre ai dati del ministero della Giustizia sui reati da Codice rosso. Aumentano i procedimenti, le leggi vengono continuamente rafforzate, eppure il problema non viene mitigato. Per i magistrati, in campo normativo e repressivo è stato fatto tutto il necessario. Infatti, con l’entrata in vigore del Codice rosso la polizia giudiziaria e le procure hanno pool specializzati, seppur con qualche criticità per quanto riguarda le realtà più piccole. Le indagini sono rapide, crescono le misure cautelari. L’attenzione è alta, ma allora perché contenere il fenomeno è difficile? Manca personale, la formazione è ancora incompleta soprattutto tra la magistratura giudicante e le archiviazioni in fase istruttoria superano in media il 50%.
Dal monitoraggio 2021 del Consiglio superiore della magistratura emerge poi che il 90% delle procure italiane ha almeno un pm specializzato, ma nella magistratura giudicante solo il 24%. Si spiega anche così il fenomeno delle sentenze con riferimenti sessisti e stereotipi per le quali l’Italia ha subito condanne e censure. I magistrati denunciano poi il mancato aumento delle risorse e una cronica carenza di personale. A farne le spese anche lo strumento dell’incidente probatorio, non usato a sufficienza, che consentirebbe la formazione di una prova forte già in fase istruttoria. Insomma, per i magistrati non servono altre norme, ma i pezzi per applicarle, oltre ad un’azione culturale, a partire dalle scuole, in ottica di prevenzione.
ROIA (TRIBUNALE MILANO) “SERVE FORMAZIONE MIGLIORE”
Per il presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia serve una formazione multidisciplinare per risolvere le falle del sistema italiano. La violenza sessuale in alcuni casi è stata descritta come uno scherzo, l’empatia viene spostata dalla vittima all’uomo violento. Anche il linguaggio delle sentenze su casi di violenza contro le donne descrivono la realtà e contribuiscono a creare la cultura, oltre a svelare stereotipi e pregiudizi che possono condizionare la narrazione giudiziaria e gli esiti dei processi. «I magistrati vivono in questa società, hanno idee e pregiudizi. Quelle frasi nelle sentenze o negli atti giudiziari, dove si parla per esempio di conflitto e non di violenza, derivano o da un’assenza di formazione multidisciplinare o dal fatto che si stia trasferendo in ambito giudiziario un pregiudizio personale», osserva Roia al Sole 24 Ore. Per il presidente del Tribunale di Milano i magistrati devono «imparare a giudicare in maniera laica, eliminando condizionamenti anche involontari su temi di grande sensibilità come questo». D’altra parte, ritiene che queste sentenze siano «casi isolati».