Secondo alcuni dati relativi a pochi anni fa, il 35% degli agenti di Polizia penitenziaria si troverebbe in una condizione di elevato rischio di suicidio. Tra il 2017 e il 2020, in 17 si sono tolti la vita. Sono cifre che la dicono lunga su una professione e su una istituzione che stanno vivendo una situazione insostenibile. È quanto ci ricorda un agente giudiziario con una carriera di quasi vent’anni da noi intervistato, che lavora in un carcere del Sud e che ha ovviamente chiesto l’anonimato: “Criminalizzare un intero corpo di polizia per le azioni di qualcuno è la cosa pegàgiore che si possa fare, ci sono tante persone tra noi con turni massacranti, per carenza di personale, che durano 12 ore rispetto alle sei ore previste.
Sacrifichiamo tanto della sfera privata per le istituzioni ed essere criminalizzato per le azioni di qualcuno mi ha fatto male come cittadino e come poliziotto. Noi non siamo quelli delle immagini diffuse nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. La magistratura farà i distinguo del caso, non è compito nostro dare dei giudizi. Purtroppo in questo momento non siamo simpatici all’opinione pubblica”.
Nel carcere dove si trova lei ci sono state rivolte analoghe a quella di Santa Maria Capua Vetere?
Sì, in parecchi istituti italiani l’8 e il 9 marzo del 2020 ci sono state rivolte come quella.
Motivate dalla mancanza di disposizioni sanitarie per i detenuti?
No, anche da noi la protesta, come quasi in tutta Italia, è partita perché era stato negato il diritto, dopo il decreto governativo per l’emergenza Covid, degli incontri con i familiari. Questa è stata la causa principale che ha acceso la miccia e ha portato agli episodi di rivolta.
Che cosa è successo nel carcere dove lavora lei? Ci sono stati particolari episodi di violenza?
Non posso andare nello specifico, ma ci sono stati ingenti danni alle strutture per quasi due milioni di euro, interi padiglioni distrutti.
Come è rientrata la protesta?
Come corpo di polizia giudiziaria nei nostri doveri istituzionali figura anche quello di difendere e preservare la struttura. Purtroppo si è dovuti ricorrere alle misure anti-sommossa con il sostegno di altre forze di polizia, perché siamo in pochi, da soli non potevamo fermare le proteste. Il prefetto ha autorizzato l’ingresso di altre forze dell’ordine.
Vedendo le immagini che tutta Italia ha visto, qual è stata la sua reazione?
Un conto è compiere determinate azioni, un conto è reprimere una violenza improvvisa, legata all’emergenza del momento. Avendo vissuto personalmente una situazione di rivolta, il mio parere, rispetto a quelle immagini, è che qualcosa non ha funzionato. Però non posso esprimermi, ci sono indagini in corso e sono vincolato dal segreto di ufficio. Quello che posso dire è che era necessario riportare l’ordine al momento della rivolta.
Secondo quanto dicono in molti, le carceri italiane durante la pandemia sono state dimenticate, perché lo Stato era assente. Ritiene che sia stato così?
In alcuni istituti sì. Pensi che sono gli stessi detenuti a realizzare le mascherine. Nel nostro caso le mascherine provengono da alcune Onlus che ci riforniscono ogni giorno. Durante l’emergenza Covid non è che lo Stato ci ha abbandonati, si è solo evidenziato il problema. Il Covid ha portato alla luce un ulteriore aspetto di ciò che si vive nel carcere.
Cioè?
Il carcere ha bisogno di un progetto serio e diverso da quello attuale.
Ci spieghi meglio.
Basta pensare al fatto che l’ordinamento penitenziario, che riguarda anche la vita e le regole alle quali deve attenersi un detenuto, è stato scritto e reso ufficiale a metà anni 70. È chiaramente indietro sul dettato normativo, bisogna riformare le carceri.
Intende dire che il cuore dell’articolo 27 della Costituzione, in cui si ribadisce che il carcere deve offrire anche un percorso rieducativo, non viene attuato?
L’articolo 27 è bellissimo, dovrebbe regolamentare la civiltà dei popoli, sono bellissime parole che purtroppo rimangono tali. La pena non deve essere afflittiva, ma tendere alla rieducazione. Eppure, facendo questo lavoro, vedo spesso i detenuti tornare in carcere. Ogni volta che uno di loro torna, quel principio fallisce.
Di chi è secondo lei la colpa maggiore?
Ritengo sia la società fuori delle mura a venire meno a questo principio. Se permetti a una persona che sta espiando la pena di reinserirsi, attuando corsi di rieducazione, corsi cioè pensati per poter reinserire il soggetto e parificarlo alla società – perché il detenuto non è pari alla società quando è in galera ma quando è fuori -, non permetti il reale reinserimento e tutto quello che si costruisce in carcere viene meno. Capita che il detenuto torni dicendo: “purtroppo non ho avuto scelta, ci sono ricascato”.
Spesso l’ex carcerato porta un marchio che lo segna a vita, non gli si dà un lavoro perché ex detenuto. È così?
Al di là del preconcetto, ritengo che nel momento critico del passaggio alla libertà tutte le associazioni che collaborano con il ministero e con l’istituzione carceraria dovrebbero fare dei corsi specializzati, in modo che quando un detenuto esce possa avere la possibilità di andare a lavorare da loro. È tutto concatenato. È facile dire dobbiamo reinserirli, ma quando la fattività del reinserimento viene meno, l’articolo 27 è come se non esistesse.
Ci può raccontare un episodio della sua carriera professionale dove il rapporto con il detenuto è stato caratterizzato da sviluppi positivi e non punitivi?
Il poliziotto penitenziario non si occupa solo di sicurezza, non solo apre e chiude i cancelli come era un tempo. Oggi noi diventiamo sociologi e psicologi, in alcuni casi anche confidenti. Il primo impatto che i detenuti hanno è quello con noi poliziotti: si creano rapporti, sempre nei limiti, non siamo quelli pronti a bastonare come pensa l’opinione pubblica. Paradossalmente oggi chi capisce noi veramente è il detenuto. È un altro aspetto del nostro mestiere che viene sottovalutato. La politica deve capire che il carcere non è un mondo a sé stante.
Ha parlato di aspetto sociologico. Ritiene che quanto successo a Santa Maria Capua Vetere sia dovuto a membri del corpo di polizia non sufficientemente preparati?
Assolutamente no. Rispetto a quando ho iniziato io il livello culturale si è alzato tantissimo, è un primo sintomo di cambiamento. In secondo luogo, i corsi di formazione mettono in atto tantissime materie che poi il poliziotto si troverà a mettere in pratica, non ultimi i corsi di prevenzione al suicidio, un fenomeno che purtroppo coinvolge soprattutto noi e l’arma dei carabinieri.
È un dato in crescita quello dei suicidi tra i suoi colleghi?
Tra i poliziotti giudiziari ci sono dati sconfortanti di suicidi, ma mi è capitato anche il suicidio di un detenuto. Il segnale maggiore deve darlo l’istituzione, viviamo in una società diversa e l’impatto sociale deve essere diverso.
(Paolo Vites)
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