A trentanni, dopo aver scoperto di essere incinta, una donna viene uccisa a coltellate e bastonate dall’amante, Antonino Borgia, che ha già confessato l’omicidio. La dinamica esatta – che secondo le cronache si è svolta tra atti sessuali e violenze – sarà stabilita dagli inquirenti. Al momento sembra certo che la donna, prima di essere uccisa, aveva chiesto e ottenuto dall’imprenditore 3mila euro per tener nascosto il fatto alla moglie dell’omicida.



Non c’era bisogno di altri due morti – parliamo di una mamma con il bimbo nel seno – per parlare di femminicidio: delitto che di frequente ha la caratteristica di essere perpetrato da qualcuno che dice di amare o di aver amato la vittima. Spesso infatti, come nel caso dell’assassino siculo, chi ammazza è l’amante, il fidanzato, il marito, il fratello, un parente stretto.

Perché una donna non si rende conto dei segnali di violenza che precedono sempre l’episodio fatale?

In primo luogo c’è da dire che purtroppo tuttora sussiste una pesantissima tara culturale. Secondo un’indagine Istat, ancora fino al 2014, 5 ragazzi su 10 non trovavano strano che, in caso di tradimento, il fidanzato alzasse le mani sulla fidanzata e, addirittura, 2 ragazze su 5 trovavano la sberla del fidanzato come una delle modalità dell’amore. E questi dati sono sovrapponibili a quelli di un’indagine svolta su 1500 adolescenti da Telefono Azzurro e Doxa Kids, sempre per il 2014.

C’è poi il fatto che spessissimo chi subisce violenze da grande non di rado ha un passato con un padre violento oppure assente, che non ha mai fatto sentire la propria bambina “una principessa” come è giusto che sia. E così, togliendole la giusta autostima, le ha impedito di essere autodeterminata e libera.

C’è poi l’inganno sottilissimo del falso amore. L’amore è: “è importante per me che tu esisti”; il potere invece è: “è importante che tu esisti per me”. Pare nulla, ma la diversa collocazione nella frase di quelle due paroline cambia tutto. Soprattutto se, come accade spesso, il potenziale femminicida non dice “è importante che tu esista per me” ma, in maniera più subdola, sillaba: “senza di te non posso vivere” oppure “tu sei tutto per me”. Frasi pericolosissime perché tutti, per amare, dobbiamo in primo luogo sapere stare in piedi da soli. Eppure capita di sentire adolescenti che sussurrano compiaciute queste frasi alle amiche senza riuscire a riconoscere che tutti siamo fragili e che nessuno può reggere un’aspettativa “divina” di onnipresenza e di totalità.

L’amore non è una spirale che inghiotte, ma un percorso dove ci si completa e ci si supporta facendo in modo che ciascuna delle due persone rimanga sé stessa, migliori e possa avere esperienze di vita anche lontane o diverse da quelle dell’altro.

L’amore vero, dunque, non va confuso con la subcultura dove l’accudimento, che tipicamente si chiede alle donne, diventa sudditanza incapace di riconoscere la tracotanza e la violenza, prima psicologica e poi fisica. Questo non significa eliminare le differenze tra maschile e femminile, ma riconoscere le peculiarità che consentono di costruire quella cultura del riconoscimento e del rispetto che significano l’amore: quell’amore che costruisce la vita dell’altro.