Due casi, apparentemente opposti, dovrebbero portarci a riflettere. Da una parte a Roma una madre viene condannata a un anno e sette mesi di prigione per aver dato nel 2016 uno schiaffo alla figlia – allora dodicenne – che aveva inviato foto osé ad un maggiorenne di cui si era invaghita, dall’altra a Brescia fa scandalo la richiesta di assoluzione avanzata dalla procura (ma respinta dal Gip che ha ora rinviato il marito a giudizio) per presunte violenze domestiche di un uomo del Bangladesh a carico della moglie, assoluzione richiesta perché i fatti rientrerebbero in una logica “culturale” dell’uomo e non per manifesta volontà di violenza.
Va premesso che ogni caso giudiziario è unico ed irripetibile, che la responsabilità penale è personale e che per giudicare bisognerebbe prima di tutto conoscere a fondo le carte della singola causa per non rischiare una inopportuna superficialità di giudizio, ma restano i due temi di fondo: i limiti della potestà genitoriale e la prevalenza o meno di aspetti culturali e religiosi per manifestazioni esteriori, rapporti legali e potenziali violenze, soprattutto tra le mura domestiche.
Sul primo aspetto mi chiedo se sia “normale” che una dodicenne mandi in giro foto sexy e quali siano i limiti culturali della madre che, in quello schiaffo, espresse forse la sua ira prima ancora che una forma di violenza (il fatto fu peraltro denunciato solo tre anni dopo dalla vittima ed era avvenuto in un contesto famigliare molto problematico), ma anche la comprensibile preoccupazione materna, sottolineando che chiunque della mia generazione ha ricevuto (credo) almeno uno schiaffo da un genitore, senza per questo farne un dramma. Certo ciò avveniva in contesti socio-culturali diversi da oggi, eppure, con tutti i dovuti limiti, anche questo aspetto era un fattore educativo non necessariamente negativo.
Sulla questione di Brescia, invece, il discorso diventa molto più complesso e non solo per condannare l’ennesima forma di violenza domestica, ma perché se – come da unanime critica espressa da ogni perbenista e progressista di ogni ordine e grado – la richiesta di archiviazione fosse un’ormai improponibile residuo di “maschilismo”, allora il discorso va allargato a “tutte” le forme di pressione psicologica o violenza che in qualche maniera hanno a che vedere con etica, cultura e religione.
Un esempio-limite per capirci ed andare sul concreto zigzagando tra mille perbenismi. Pochi minuti fa, davanti al principale supermercato della mia città, c’era una famiglia musulmana con due donne vestite con il burqa (o burka) afghano azzurro e relativa nidiata di figli e figlie. Premesso che se avessero indossato vestiti “normali” (si può ancora dire?) nessuno le avrebbe notate e così invece erano all’attenzione di tutti, quelle donne (io presumo – ovviamente – che fossero donne) erano state libere o meno di indossare quei vestiti o gli erano stati imposti? Il caso di Brescia è nato perché la moglie (praticamente italiana) aveva denunciato il marito, ma quante musulmane hanno il coraggio o anche solo la possibilità di farlo? Chi – come me – ha fatto il sindaco sa delle difficoltà che si incontrano perfino per far sottoporre una donna velata ad una visita ginecologica, medica o anche solo farla partecipare ad un corso parascolastico. Se si critica il caso del maschio potenzialmente assolto, perché allora non si interviene in mille casi analoghi che invece si preferiscono ignorare?
Immaginate che sia concretamente possibile per quelle donne velate del supermercato recarsi “propria sponte” nella nostra vicina questura per denunciare una eventuale violenza domestica? Attenzione, perché siamo subito su un piano inclinato: è comunque legittimo indossare in luoghi pubblici quel burqa che impedisce il riconoscimento? Nel concreto, chi avrebbe poi l’autorità di intervenire, identificare o perquisire quelle due donne?
Eppure quelle due persone stavano visibilmente commettendo un reato, perché girare mascherati in luoghi pubblici è comunque illegale in base alla legge del 22 maggio 1975, n. 152, in materia di disposizioni a tutela dell’ordine pubblico (pena punibile con sanzione amministrativa da 10 a 103 euro), eppure nessun poliziotto oserebbe oggi intervenire, ma sostanzialmente solo nella logica del “non vado a cercarmi grane”.
Siamo partiti dalle critiche ad una proposta di archiviazione di un Pm, ma – da un aspetto formale come un abito in pubblico – cadremmo in infinite contraddizioni e problemi che non si affrontano solo per la stessa logica dell’evitare “grane” .
Per esempio (nel parlo dettagliatamente in un mio libro) la Sharia ha o no valore giuridico in una comunità musulmana in Italia? Quanti sanno che l’islam non accetta molti aspetti del nostro codice civile e neppure i principi fondamentali dei diritti dell’uomo che, come nella nostra Costituzione, equiparano l’uomo alla donna? Eppure si accetta tranquillamente il giuramento di fedeltà alla Costituzione da parte dei musulmani che ottengono la cittadinanza italiana: non è un controsenso?
Se poi sosteniamo di essere una società laica e si critica la decisione del Pm che richiama le radici culturali della coppia islamica, allora questo deve valere per tutti i reati e in quali contesti o comunità?
Tema delicatissimo e divisivo, ma che sarà il futuro del diritto italiano, visto l’andamento demografico, portando a divisioni, assurdità e paradossi, così come avviene in Francia dove le manifestazioni religiose esteriori non sono ammesse per esempio nella scuola (dove non potete ostentare neppure una catenina con il crocefisso o una stella ebraica!). Oppure come in Germania dove non si può guidare con il velo “per motivi di sicurezza acustica e visiva”. Un dibattito coinvolgente, appena iniziato.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.