All’improvviso il coronavirus, termine sconosciuto fino a pochi giorni fa, ha occupato il centro della scena finanziaria, scacciando i protagonisti della kermesse di Davos, Donald Trump compreso. Certo, è vero che le epidemie degli ultimi decenni sono sempre rimaste circoscritte. È però anche vero che ogni tanto i virus mutano lungo il cammino e fanno gravi danni. Un secolo fa, la “spagnola” fece dai 50 ai 100 milioni di morti in ogni angolo del pianeta su una popolazione umana che era grosso modo un quarto di quella di oggi.
La paura, insomma, è legittima e va senz’altro incorporata nelle scelte della politica e degli operatori economici. Senza esagerare, però, anche perché, come dice l’Organizzazione mondiale della sanità, è davvero troppo presto per lanciare un allarme sistemico. Semmai, la formidabile rete di sicurezza stesa dalle autorità, che ha isolato dal resto del mondo (per ora) 26 milioni di persone, così come la scelta di rinunciare allo spettacolo per l’inizio dell’anno lunare nella Città Proibita, stanno a testimoniare che: 1) la Cina vuol dimostrare al mondo la sua trasparenza, in netta contrapposizione all’atteggiamento burocratico tenuto in occasione della Sars del 2003 quando l’assenza di notizie e l’atteggiamento soft dell’apparato, ansioso di dimostrare “che le cose vanno bene” favorì la diffusione del virus; 2) l’emergenza colpisce un Paese in piena rivoluzione terziaria, molto diverso sia dalla vecchia immagine rurale che dalla fabbrica del mondo. Secondo S&P, la frenata del turismo e dello shopping per l’avvio dell’Anno del Topo possono ridurre la crescita del Pil dell’1,2%. L’epidemia, insomma, non riguarda solo i polmoni, ma anche il portafogli.
Ma fino a quando? Per ora non si può che sospendere il giudizio. Se si guarda alle esperienze più recenti (vedi Sars) l’emergenza potrebbe rientrare in tempo brevi. È questo il giudizio più diffuso tra gli operatori, tutto sommato contenti per una pausa del rally dei mercati finanziari, assai più euforici fino a ieri di quanto non lo giustificassero i dati dell’economia. L’epidemia permette alle banche centrali di proseguire nell’opera di sostegno ai prezzi di Borsa mentre la caduta dei rendimenti dei titoli a medio lungo (il Btp decennale tratta all’1,25%, nonostante la vigilia elettorale porti aria di crisi politica) fa da argine alle tensioni sui tassi agitata dai falchi tedeschi.
In questo clima rischia di perdersi il filo conduttore dello scontro sull’emergenza climatica che ha caratterizzato il vertice di Davos. E sarebbe un vero peccato, perché il nuovo conflitto tra apocalittici (i giovani di Greta Thunberg vogliosi di salvare il mondo ereditato da padri incoscienti) e integrati (“Ma chi è sta ragazzina – ha tuonato a Davos il segretario al Tesoro Usa Steve Mnuchin parlando di Greta – Vada a scuola, l’ascolterò dopo la laurea”), merita per davvero di stare al centro della scena per il 2020 e oltre all’insegna dei nuovi bisogni. Del resto Gramsci diceva che la psicanalisi comincia da un certo livello di reddito in su e lo stesso si può dire oggi dell’ecologia.
Da un certo livello di reddito la priorità passa dal riempire lo stomaco al non respirare carbone e se la Cina sta finalmente trovando la forza di ridurre la sua dipendenza dal carbone è perché ha raggiunto un livello di sviluppo e di ricchezza. Il difficile è procedere oltre, come dimostrano le difficoltà della società italiana, che continua testardamente a battere i sentieri del passato, moltiplicando, al di là delle chiacchiere, vincoli fiscali e burocratici, azzoppando la crescita. Nel nome di uno statalismo di fondo che accomuna un po’ tutti, come dimostrano le ricette per Alitalia, Ilva e altre emergenze. È, nel nostro piccolo, un coronavirus per cui non è stato individuato un vaccino.