Non ci vuole un genio per capire come la preoccupazione del Quirinale stia crescendo negli ultimi giorni, man mano che il neonato governo ha preso a traballare sotto i colpi che gli sta infliggendo quasi quotidianamente Matteo Renzi. L’illusione di aver assicurato al paese un periodo abbastanza lungo di stabilità avallando la nascita dell’esecutivo giallorosso è già svanita, ma il Capo dello Stato si trova sostanzialmente disarmato di fronte a un quadro politico che ha preso ha muoversi vorticosamente proprio quando l’aspettativa era che la situazione si rasserenasse.



A Sergio Mattarella nessuno aveva preannunciato l’intenzione del senatore di Rignano di lasciare quel partito che ha guidato per un quinquennio per mettersi in proprio. E certo questa inattesa novità non ha fatto fare i salti di gioia all’inquilino del Colle. Non è proprio la stessa cosa dare il via a un governo tripartito e trovarsi all’improvviso un interlocutore in più. I precedenti di Renzi non aiutano. Sergio, insomma, non sta sereno affatto.



I rapporti fra i due sono freddi sin dal referendum del 4 dicembre 2016. Mattarella è sempre stato perfettamente consapevole di dovere la propria elezioni al sostegno di Renzi, e infatti nei primi 22 mesi al Quirinale non ha mai fatto passare occasione pubblica senza sottolineare la necessità di completare il quadro delle riforme. Un sostegno implicito, ma evidente, alla riforma costituzionale targata Boschi.

Quel che però il Capo dello Stato non ha mai capito dell’allora premier è stata la necessità di personalizzare al massimo quella consultazione. Invano più volte Mattarella aveva lanciato segnali a Renzi di evitarlo. All’indomani dell’esito netto del referendum Mattarella pretese sia che le dimissioni venissero rinviate di alcuni giorni per consentire il varo della legge di bilancio, sia che fosse Renzi a formulare il nome del suo successore, così da ingabbiarlo nella necessità di sostenerlo. Due mosse che il premier uscente sentì quasi come un tradimento.



Quel rapporto mai ricucito del senatore di Rignano con il Quirinale rappresenta oggi un serio punto di debolezza del governo Conte bis. Mattarella osserva perplesso il crescendo di stilettate al premier, ultimo in ordine di tempo l’invito ad andare a riferire al Copasir sui rapporti fra i nostri servizi segreti e il ministro della Giustizia americano Barr. E la conseguente richiesta di cedere ad altri la delega sui nostri 007 (che Conte si è tenuto in entrambi i governi) se non adombra un’accusa di alto tradimento poco ci manca.

È come se Renzi stesse spendendosi per dimostrare l’inadeguatezza del presidente del Consiglio rispetto al ruolo e al programma del governo giallorosso. Logico il nervosismo del diretto interessato, come pure del Pd, che la scissione non l’ha proprio digerita. Quando Andrea Orlando scandisce che sono inaccettabili ultimatum tanto dal Papeete quanto dalla Leopolda, mette Renzi sullo stesso piano di Salvini: un’equivalenza che non può avere come effetto quello di esacerbare gli animi.

Più della sua moral suasion in questa fase Mattarella non può mettere in campo. Il richiamo al senso di comunità e alla necessità di lavorare per il bene comune è costante in ogni discorso. Rifarsi allo spirito di servizio equivale a invitare i contraenti del patto giallorosso ad abbassare i toni.

Non è un mistero che questo esecutivo è nato con l’obiettivo di durare sino alla fine della legislatura, nella primavera del 2023, o, come minimo, sino alla scelta del prossimo Capo dello Stato, nel gennaio del 2022. Si tratta di traguardi impensabili, senza un assestamento della maggioranza e un abbassamento dei toni.

Di certo, infatti, c’è che questo governo farà la legge di bilancio. Da Natale in poi nessuno sa cosa possa succedere. Ad allungare la legislatura potrebbe contribuire la riforma costituzionale del taglio del numero dei parlamentari, e la conseguente necessità di mettere mano alla legge elettorale. La realtà, però, è che Conte, Di Maio, Zingaretti e lo stesso Mattarella sono ostaggio degli umori altalenanti di un senatore di Rignano che si è ripreso di prepotenza il centro della scena politica italiana e sarà l’unico arbitro della durata del governo. Una sorta di Ghino di Tacco del XXI secolo.