In un Libano dove la moneta locale, la lira, ha perso il 95% del suo valore e il tasso di povertà multidimensionale (che tocca cioè tutti gli aspetti del vivere comune) è passato dal 42% del 2019 all’82% del 2021, qualcosa sta cominciando ad accadere, in senso positivo. Il 10 febbraio il governo ha approvato la legge di bilancio per il 2022, dopo otto sessioni consecutive, cosa che era richiesta a viva voce dal Fondo monetario internazionale per poter riaprire un dialogo al fine di poter concedere aiuti al paese devastato dalla speculazione e dalle politiche scriteriate delle banche. “La legge adesso deve passare all’esame del Parlamento” ci ha detto in questa intervista Camille Eidgiornalista libanese residente in Italia e collaboratore di Avvenire,ma finalmente si registra un indubbio passo avanti rispetto alla situazione senza sbocco in cui si trovava il Libano”.



Un paese che, proprio perché economicamente in ginocchio, è preda “di ogni stato, a cominciare dal Kuwait fino alla Turchia, ciascuno dei quali presenta una lista di condizioni spesso difficili da accettare, perché significano mettere le mani sul Libano, in cambio di aiuti economici”.

L’arcivescovo Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati, si è recato nei giorni scorsi in Libano. Ha parlato di una possibile visita del Papa: sarebbe utile ad attirare i riflettori del mondo su questo paese sfortunato?



Già al ritorno dalla sua visita in Iraq il Papa aveva espresso l’intenzione di andare in Libano. Certamente, sarebbe importantissima, ma non avverrà prima delle elezioni presidenziali, previste alla fine di ottobre, per evitare che l’attuale presidente si arroghi il merito e in questo modo ne guadagni dal punto di vista elettorale.

L’altra notizia positiva è che il Fondo Monetario Internazionale ha riferito di aver registrato progressi nei colloqui con le autorità libanesi, per delineare finalmente un piano di riforme in grado di fermare la grave crisi economica e finanziaria. E’ così?



Sì, l’intoppo che impediva la ripresa del dialogo era l’approvazione della legge di bilancio 2022. Legge che è stata appena approvata dal governo, adesso dovrà passare all’esame del Parlamento. Ma è già un passo avanti positivo. Ci sono però dei punti ancora poco chiari.

Quali?

La ripartizione delle perdite solo del settore bancario ammontano a 69 miliardi di dollari americani e nella legge di bilancio si propone di dividere questa cifra per il 55% a carico dei correntisti.

Ma come è possibile? Il popolo libanese è alla fame.

Infatti. Solo l’1% del totale è previsto che venga pagato dalla Banca centrale e poco altro dai consigli di amministrazione delle banche private. Non è poi chiaro se questi soldi saranno restituiti in dollari o in lire libanesi e in quanto tempo.

Un paese così allo sbando può facilmente finire preda di interessi internazionali. Quali stati dell’area stanno mettendo le mani sul Libano o intendono farlo?

Ci sono interessi da parte di tutti. Il Kuwait, ad esempio, che aveva interrotto i rapporti diplomatici dopo le dichiarazioni del ministro dell’informazione Kordahi che accusava i paesi arabi di complotti, ha riaperto il dialogo. Il ministro degli Esteri si è presentato a Beirut con una lista di punti da concordare: ad esempio, ha chiesto che le armi in Libano siano sotto il controllo del monopolio di Stato, una misura ovviamente a sfavore di Hezbollah.

Insomma, tutti vogliono dire la loro sulle questioni interne?

Già. Ciascuno presenta la sua lista di condizioni per offrire in cambio un aiuto. Si tratta di aiuti condizionati.

Quale altro paese è in primo piano in questi tentativi di intrusione?

Certamente la Turchia, che già da tempo cercava di infiltrarsi nelle questioni libanesi. Adesso con le dimissioni e la dichiarazione di ritiro dalla vita politica dell’ex premier Saad Hariri, figlio ed erede politico del defunto ex primo ministro Rafiq Hariri, ucciso a Beirut nel 2005, la situazione all’interno del gruppo sunnita volge a favore di Ankara. Recentemente il primo ministro Najib Mikat è stato accolto in Turchia come se fosse un capo di Stato.

A proposito del ritiro di Hariri e delle prossime elezioni previste a maggio, come peserà questo suo gesto?

Hariri non parteciperà alle elezioni e non vuole che il suo partito partecipi, ma ha detto che non le boicotterà. Nella comunità sunnita c’è un evidente senso di smarrimento, è vero che Hariri non ha più il consenso della maggioranza, dopo la morte del padre aveva l’85% e alle elezioni del 2018 su 27 deputati sunniti 16 appartenevano al suo gruppo. Il suo ritiro ha creato un vuoto che tutti cercheranno di colmare. Non sappiamo quanto tutto questo potrà incidere anche sull’elezione di deputati cristiani.

C’è il timore che con l’approssimarsi del voto si scatenino violenze e incidenti?

Tutti i leader fanno pressioni perché le elezioni si tengano. Qualche giorno fa nel corso della messa celebrata dal cardinale Béchara Boutros Raï, Patriarca di Antiochia dei Maroniti, a cui erano presenti tutti e tre i presidenti, quello della Repubblica, quello del Parlamento e quello del governo, il Patriarca ha ricordato con insistenza che bisogna rispettare le scadenze elettorali. Ha anche parlato di una proposta che porti il paese a una condizione di neutralità religiosa, superando l’attuale divisione confessionale.

Lei pensa che si possa arrivare al voto?

Personalmente nutro dei dubbi, perché se succede qualcosa si rischia di tornare a una stagione di assassini politici. A poter influire sul voto è lo stato di sicurezza del paese. Resta poi l’incognita del voto dei libanesi migrati all’estero: si sono già registrati al voto il doppio di quelli che erano quattro anni fa. Per un paese come il Libano è ancora presto per capire cosa succederà davvero.

(Paolo Vites)

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