Stamattina si riuniscono gli stati maggiori del Pd in un convento nei pressi di Rieti. L’appuntamento inizialmente doveva servire a fare il punto sulle proposte da avanzare al prossimo vertice di maggioranza, quello che dovrebbe riscrivere il programma di governo fino al 2023.

Poi la conversazione con cui Zingaretti ha consegnato a Massimo Giannini di Repubblica le sue idee sul futuro del Pd, ha aggiunto nuovi argomenti al confronto, rimettendo al centro l’attenzione sulle sorti future della sinistra italiana.



Il segretario – ricordiamolo, lo è da meno di un anno – non se l’è sentita di aspettare l’esito del voto in Emilia-Romagna per porre alcuni quesiti di fondo che riguardano il suo partito. Da qualche tempo si è reso conto che molti dei suoi, ritornati al governo, appaiono appagati e sempre più presi dalla normalità. “Non dobbiamo essere pigri”, gli è sfuggito,  ed è meglio suonare subito la campanella della sveglia.



All’incontro, nelle austere sale dell’Abbazia di San Pastore, partecipano i gruppi parlamentari della Camera, del Senato e del Parlamento europeo, i membri del governo, la direzione nazionale, i vertici regionali e delle principali città, sindaci e presidenti di Regione. Sono arrivati alla spicciolata da tutta Italia, e ci saranno anche dei ritorni importanti, come quello del governatore campano De Luca.

Ad aprire i lavori due relazioni, quella di Dario Franceschini, capo delegazione del Pd al governo, e quella del sociologo Ilvo Diamanti, per fotografare i principali cambiamenti di questi anni e provare a leggere alcune tendenze emergenti. Poi, come è consuetudine ormai da anni, i singoli punti del programma saranno affrontati nei gruppi di lavoro.



Dagli incontri preparatori sono già emerse poche ma chiare proposte: un riforma radicale del fisco, la scelta per la “green new deal”, un programma d’urto per la scuola e la formazione, soprattutto al Sud. La volontà non è quella di mettere “le bandierine”, come ammonisce lo stesso Zingaretti ai suoi alleati, ma quella di prendere fino in fondo in mano le sorti del governo, fare del Pd il motore della coalizione, a costo di sacrificare visibilità e aspirazioni personali.

In ogni caso, l’appuntamento di Rieti rappresenta una novità. Erano anni che nessuno si occupava di stabilire un rapporto più corretto tra il partito e i rappresentanti nominati nel governo. Ma oggi il gruppo dirigente del partito si presenta come un punto di equilibrio, un centro di gravità unitario, non solo sulla politica ma anche sulle scelte programmatiche. Era ed è una esigenza reale, avvertita anche da chi svolge funzioni di governo. Insomma si conferma quella lenta ma univoca trasformazione dal partito personale, in cui il leader decideva tutto da solo, al partito collettivo, quello del “noi”, dove anche le proposte di governo sono concordate prima e condivise tra tutti. Non sono questioni di poco conto. Anzi è tutta qui la svolta imposta da Zingaretti.

Solo chi ha deriso sin dall’inizio Zingaretti continua a non capire cosa sta succedendo. Colpisce ad esempio un violento tweet del vecchio Claudio Petruccioli, che definisce addirittura Zingaretti un “pupazzo” e Giannini il suo ventriloquo. Segno emblematico della fine alquanto ingloriosa di un’intera generazione di dirigenti comunisti italiani, che da tempo confonde le proprie numerose sconfitte personali con quelle della sinistra di oggi. E ne invocano la morte, col solo scopo di nascondere le responsabilità del passato.

Serve invece riconoscere oggi come da “Piazza Grande”, l’idea su cui fu costruita la candidatura di Zingaretti nell’estate del 2018, al “Pd, cambio tutto” dell’altro giorno su Repubblica, vi è un unico filo rosso che spiega un anno ricco di decisioni e di avvenimenti tumultuosi. “Ho scommesso tutto su unità e apertura”, afferma Zingaretti. Nessuno, neanche il più astioso Petruccioli, può negare che da un anno il Pd si è mosso collegialmente, e grazie a questo spirito ha retto l’urto di ben due scissioni. Ma ora è arrivato il momento dell’apertura. Il Pd così com’è per certi aspetti è irriformabile, e solo la ricostruzione dalle fondamenta di un nuovo partito – o partito nuovo, come si preferisce dire – potrà garantire che non si riformino quei nodi che hanno stretto alla gola il Pd, fino a soffocarlo.

Sindaci, movimenti, sardine, ambientalismo, associazioni e volontariato sono gli interlocutori privilegiati del progetto di Zingaretti. Ma perché anche stavolta non finisca tutto in una mera operazione di facciata, come paventa il sindaco Sala, serve molta innovazione, nei contenuti e nella struttura organizzata. In ogni caso, una volta dichiarata la fine del partito personale (“l’unica cosa che si decideva nei congressi era chi fosse il capo”), ora bisogna fare in modo di non diventare il partito dei piccoli potentati, dei ras territoriali, dei possessori di tessere.

Zingaretti “sente” che non è circondato più dallo scetticismo iniziale, alimentato da tutti coloro che lo ritenevano inadeguato a priori, e sa di aver vinto fin qui la sfida. Molto probabilmente ci saranno nuovi candidati pronti a sfidarlo, e anche questo è un bene. Serve a tenere insieme il Pd, o quel che sarà, ben saldo al centro della scena, e soprattutto è la dimostrazione che quel famoso filo rosso, che si era spezzato rovinosamente negli ultimi anni, il “segretario mite” ha trovato il modo di riannodarlo.