(Forza) Italia Viva – per distinguerla dall’altra, cioè da Forza Italia, quella quasi morta – non va molto bene nei sondaggi. Come in quasi tutte le scissioni degli ultimi decenni – sia a sinistra che a destra – il nuovo partito di Renzi non si schioda (rilevazione Demos di ieri) da un misero 3 virgola qualcosa.



Gli ultimi a subire la stessa “maledizione” era stata LeU, la scissione dei capi storici della sinistra, che alle elezioni del 4 marzo 2018 dovette sudare sette camice per superare la soglia del 3% e portare a casa una manciata di parlamentari.

Devono essere giornate febbrili queste che ci separano dalla decima edizione della Leopolda, che per la prima volta assumerà le reali sembianze di un’assemblea di partito. In pratica un congresso.



Per cui saranno davvero pochi i curiosi, così come saranno del tutto assenti quelli del Pd, che negli anni hanno frequentato la Leopolda per capirne di più e che ora sanno che ne devono restare alla larga. Domineranno la platea i fedelissimi, i militanti e i tanti politicanti locali in cerca di un vessillo da sbandierare nei propri territori.

Vedremo quanto peserà nelle adesioni alla kermesse fiorentina di fine mese quel misero 3 virgola qualcosa.

Intanto nella lettera al Corriere dell’altro giorno Renzi ha svelato la sua strategia per i prossimi mesi: vuol tenere sotto pressione il governo (e il Pd) mentre strizza l’occhio agli elettori di centro-destra in crisi, agitando i temi cari al liberismo nostrano: meno tasse, meno vincoli, meno giustizialismo.



Nella lettera ci sono evidenti imprecisioni. Ad esempio, l’ultimo ad aumentare l’Iva fu effettivamente il povero Letta, ma per colpa di una decisione irrevocabile presa da Tremonti e dall’ultimo governo Berlusconi.

Ancora, si parla di costi per servizi da tagliare ma si omette di citare che fu proprio il governo Renzi a mandare a casa Cottarelli e con lui la spending review (a proposito, ma Cottarelli non ha nulla da dire su questo?).

Infine, si mettono nel conto gli 80 euro, ma si omette di dire che diversi tra coloro che li hanno percepiti poi se li sono visti riprendere dal fisco in una volta sola l’anno successivo.

Fatto sta che il giochetto di impedire prima ai ministri Pd e 5 Stelle di rimodulare l’Iva, aumentandola per i consumi di lusso con lo scopo di recuperare nuove risorse, per poi accusare subito dopo il governo di scarso coraggio sul “cuneo fiscale”, è fallito miseramente.

A demolire la tesi dell’ex premier ci hanno pensato nelle ore successive alla pubblicazione della lettera sia Nannicini (ex consigliere renziano a palazzo Chigi, ora senatore fedele del Pd) che lo stesso Bonomi, presidente di Confindustria Lombardia.

Il premier Conte è andato giù duro nella replica affidata ieri a Repubblica: “non abbiamo bisogno di fenomeni. Se si continua così non resta che il voto”.

La tesi di Conte è identica a quella espressa da Emanuele Macaluso dalle pagine, seguitissime, del suo blog. Il vecchio dirigente riformista ha indicato con lucidità la linea: “non temete Renzi, anzi non prendetelo proprio in considerazione, fate finta che non esista”.

Secondo Macaluso Matteo Renzi ha il terrore del voto, perché andare a votare con la legge elettorale in vigore – quella che porta il nome del renzianissimo Rosato – significherebbe ridurlo ad una forza insignificante. Quello di Macaluso è più di un velato invito a rompere con Italia Viva dopo il voto in Umbria, andare alle elezioni con la nuova coalizione giallorossa, e capitalizzare il consenso maturato su premier e finanziaria per battere in un  sol colpo i “due Matteo”.

Zingaretti invece non sembra voler cambiare il suo atteggiamento attendista, e lancia dalle stanze del Nazareno a fine giornata un tiepido “basta sgambetti”.

Come dargli torto! Questa linea in fin dei conti è risultata vincente. Zingaretti è riuscito in questo modo a stravincere le primarie portando al voto 2,5 milioni di elettori del Pd, superare a pieni voti le elezioni europee, formare in 15 giorni il governo Conte-2, raggiungere il 34% di gradimento come leader (fonte Demos) lasciando Renzi ultimo, addirittura dietro Berlusconi.

Voi cambiereste linea?

Detto ciò, il popolo di sinistra scalpita e fa il tifo per un cambio di passo. Sognano un segretario meno mite e all’attacco, in grado di assestare un bel colpo ogni tanto, non stare lì sempre ad incassare e ripartire con la litania dell’unità ad ogni costo.

La verità è che sulla scrivania di Zingaretti si stanno accumulando importanti dossier che aspettano una risposta chiara da parte del Pd. E su ognuno di questi “capitoli” lo scontro con i renziani sembra davvero inevitabile.

A cominciare dalla Rai per passare dall’intricato nodo Autostrade-Atlantia-Alitalia, senza dimenticare la riforma della prescrizione e il dossier sugli incentivi per la green economy.

Senza contare l’avvicinarsi delle scadenze elettorali, oltre l’Umbria, in Calabria, Emilia-Romagna, Campania, Puglia, Toscana. Ogni partita ha una storia a sé, ma tutte possono essere vinte. Ad una condizione: il Pd non può semplicemente assolvere alla funzione di un vigile urbano e accontentarsi di sbrogliare il traffico. Il principale partito della sinistra italiana ha il dovere di ricostruire il proprio bagaglio di proposte, soprattutto nelle materie economiche. Sarebbe per questo auspicabile un più rapido avvicinamento con le posizioni del sindacato e una più forte apertura alle novità e alle proposte interessanti provenienti del mondo delle imprese (vedi ad esempio l’assemblea di Assolombarda). Chi altro dovrebbe assolvere a questo ruolo? Davvero si vuole regalare i rapporti con i corpi intermedi a chi, quando sedeva a Palazzo Chigi, si divertiva a schernirli e alla fine li mise alla porta?