L’unico ma importantissimo punto su cui Zingaretti e Di Maio hanno trovato un accordo vero nel corso del loro ultimo incontro riguarda una nuova legge elettorale, proporzionale, con lo sbarramento al 5%.

In queste ore i due partiti più grandi della maggioranza di governo stanno cercando di convincere i due alleati minori, Leu e Italia Viva. Il primo, nato dalla scissione contro Renzi del 2017, è contrario apertamente, non tanto al proporzionale quanto ad una soglia così alta. Gli ex piddini di sinistra chiedono la soluzione “spagnola”, cioè un proporzionale con limiti più bassi in alcune circoscrizioni. Il partito di Renzi invece si comporta da spaccone, esattamente come fa il suo capo: non può che far finta di dimostrare indifferenza rispetto alla soglia del 5%, ma sotto sotto rosicano, perché capiscono che mentre il partitino di Speranza e Bersani un accordo con il Pd alla fine lo trova, per loro sarà molto complicato raggiungere da soli un risultato che oggi i sondaggi stentano a riconoscergli.



Così la riunione del “gruppo tecnico” della maggioranza che ha preceduto la presentazione della proposta Brescia (M5s) si è rivelata come una specie di presa d’atto dell’impossibilità per la maggioranza di avanzare una proposta unica.

Da un lato si è aperto così un problema non di poco conto per la tenuta del governo, ma dall’altro sono ora possibili nuovi spazi di confronto con le altre forze presenti in Parlamento, in particolare Lega e FdI, partiti che viaggiano a gonfie vele, su percentuali molto più alte di quelle raggiunte in passato.



Si configura così sulla nuova legge elettorale una possibile ampia maggioranza trasversale, che vede da una parte i 4 partiti maggiori (M5s, Pd, Lega e FdI), tutti d’accordo a collocare molto in alto l’asticella dello sbarramento, e dall’altra i piccoli partiti personali (Renzi, Berlusconi, Calenda, Bonino, ecc.) che viaggiano su percentuali tra il 3 e il 5%. Sarà interessante ora vedere fino a che punto una tale maggioranza sarà in grado di tenere a bada i gruppi più piccoli e le decine di transfughi (se ne contano già una settantina in appena due anni di legislatura) che hanno già la certezza di non essere rieletti.



La prima grande novità che emerge da questa situazione è che i partiti personali sembrano avviati ormai sul viale del tramonto. Con la caduta di Forza Italia e l’espulsione/fuoriuscita di Renzi dal Pd finisce un’epoca in cui hanno dominato gli uomini soli al comando. È vero che oggi alla guida dei 4 partiti più grandi vi sono leader forti e riconosciuti (Salvini, Meloni, Zingaretti e, tutto sommato, lo stesso Di Maio), ma nessuno di essi è un uomo (o donna, nel caso di FdI) solo al comando. Essi sono espressione di “partiti in via di ricostituzione”.

Ad esempio, quanti hanno in questi anni spiegato il successo  della Lega con il suo radicamento sul territorio, per i suoi gruppi dirigenti solidi, per la presenza di personalità che possono in ogni momento (Giorgetti, Zaia, Maroni, per citarne alcuni) sostituire il “capitano”, e che lo stesso Matteo Salvini tiene nel giusto conto e ne ascolta le opinioni. Lo stesso partito della Meloni sembra rinverdire una vecchia tradizione di partito di destra ben presente sul territorio e capace di sviluppare una politica di massa.

Anche il Pd sta lentamente riprendendo le sembianze di un vero partito. Nel senso che giorno dopo giorno ridiventa una forza con una sua vita collegiale, dove le opinioni di ciascuno contano, ma soprattutto le scelte sono sempre condivise, cosa che non accadeva da anni e il cui merito principale va proprio a Zingaretti e al gruppo dirigente a lui più vicino. Tra qualche giorno in un convento vicino Rieti addirittura prenderà visivamente corpo questo lavoro comune sul programma, sulle cose da proporre insieme, e non comunicate – via slide – in una conferenza stampa da Palazzo Chigi.

Un pensierino a come fare per trasformare il Movimento in un partito lo sta facendo anche Grillo. L’idea di un movimento costruito intorno a poche regole che la piattaforma Rousseau doveva rendere concrete e applicabili è ormai fallita. Votare ogni cosa come in un’assemblea virtuale permanente, nascondere le diversità, imporre un leader unico, tra l’altro poco capace, sta portando il Movimento all’estinzione.

Eppure basterebbe, con buona pace della Casaleggio Associati, dare caratura democratica ad un gruppo dirigente che, nonostante tutte le critiche ricevute in questi anni, è oggi mediamente conosciuto ed è ormai da due anni sottoposto alla prova di governo.

Tutto ciò sta avvenendo grazie alla svolta proporzionale che la sconfitta della riforma Renzi-Boschi con il referendum del 2016 ha reso inevitabile. Oggi, dopo circa 30 anni di tentativi per imporre in Italia una democrazia bipolare, siamo ritornati al punto di partenza, ad una nuova legge elettorale proporzionale, che darà nuova forza ai partiti, sia vecchi che nuovi. Saranno essi infatti a fare le liste, a scegliere gli eletti, e non saranno più tollerate decisioni arbitrarie di capi assoluti, che pretendono di promuovere gli amici fidati. Dovremmo proprio per questo augurarci una rapida rinascita di partiti democratici.

In conclusione, dunque, dagli eventi spesso drammatici di questi anni possiamo dire di aver appreso due lezioni molto importanti: la prima è che se la politica non fa le riforme, un paese serio si riforma da solo. Secondo, che tutto sommato non è neanche detto che, come nel nostro caso, l’esito sia da considerare negativo.

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