Ora che tutto sembra volgere per il meglio, riappaiono all’orizzonte i classici mali italiani. Eppure non dovrebbe essere difficile dimostrare che le cose sarebbero potute andare molto peggio se la classe dirigente italiana non si fosse impegnata nel dare una prova di serietà. La stessa serietà che ora è richiesta al governo e alla maggioranza che lo sostiene per affrontare la crisi economica e compiere il necessario “salto di qualità”.



Questo, in sintesi, il messaggio contenuto nella relazione di Nicola Zingaretti alla direzione nazionale del Pd (pochi presenti al Nazareno, la maggioranza collegati via zoom), condiviso all’unanimità dalle varie anime del partito.

La prima ondata della pandemia si è dunque conclusa con un bilancio drammatico. Migliaia di morti, soprattutto tra i nostri over 70, un sistema sanitario messo alle corde, anche se ancora in piedi, un’economia costretta a fare i conti con la frenata più lunga della storia recente. Ora bisogna contare i danni e ricostruire l’ossatura portante di quello che sarà il nostro paese nei prossimi anni.



Di queste cose ha discusso ieri il Pd. È il primo a farlo, e già questo segna un punto a favore del partito che durante il lungo lockdown ha portato, silenzioso, sulle sue spalle il peso principale di un governo nato con poche ambizioni e che si è trovato a guidare il paese nella più grave emergenza degli ultimi 70 anni.

Zingaretti ha rivendicato questo merito e ha spiegato, con la solita ragionevolezza che a volte sfiora l’ovvietà, che la scelta non aveva alternative e che tutto sommato l’Italia si può considerare fortunata ad avere avuto questo governo e non un esecutivo anti-europeista e di destra.



Il segretario del Pd ha chiarito subito che non pensa a maggioranze alternative, non sono all’ordine del giorno governi istituzionali e larghe intese. Si va avanti con il governo Conte, punto. Ma chiarisce che il Pd non ha intenzione di affidarsi al presidente del Consiglio al buio, né tanto meno a quei ministri che hanno dimostrato tutti i loro limiti. Tanto più che ci sono risorse importanti da investire.

In questi ultimi giorni la tensione nella maggioranza di governo era esplosa sui temi della scuola. La linea della prudenza assoluta, vincente su scala generale, ha però avuto come conseguenza la scelta di tenere chiuse le scuole. Rinviare a settembre la riapertura ha offerto il fianco a polemiche pungenti, e vasti settori di opinione pubblica hanno accusato il governo di non aver scelto la scuola come priorità.

Con il conforto dei tecnici, non si è neanche ceduto alla romantica richiesta di consentire almeno il rientro per l’ultimo giorno, giusto per salutarsi. Ora però la prova di settembre non può fallire. Come per il Pil, anche per la formazione dei nostri ragazzi il lockdown ha prodotto un vero e proprio “buco” che la “scuola a distanza” ha colmato solo parzialmente e sarà bene porvi rimedio al più presto.

Lo scontro nella maggioranza si è acceso in particolare intorno alle modalità di reclutamento degli insegnanti indispensabili alla ripartenza. Il ministro Azzolina era schierata sulla posizione del Movimento del “nessuno entra senza concorso”, mentre il Pd ha cercato di dare voce alle richieste dei sindacati e alla necessità di dare risposte a chi attende da anni in una graduatoria o al mondo del precariato. Il Pd ha in questa occasione fatto capire a Conte due cose molto concrete: la prima è che si deve tornare subito alla collegialità, e mai più un ministro può pensare di gestire il suo ministero senza tener conto di quello che pensa l’intera maggioranza; la seconda, che il Pd è un partito unito e non un’accozzaglia di subcorrenti da accontentare, e che il rapporto deve essere con i vertici politici.

Zingaretti ha rivendicato ancora una volta la scelta della collegialità. Questa scelta ha reso più compatto il gruppo dirigente, che ha smesso – quasi per incanto – di offrire la solita immagine di una sinistra divisa e litigiosa.

Certo, una tale emergenza, gestita sul filo dell’effettiva libertà di movimento e delle notizie del giorno dopo giorno, non poteva non condurre il presidente del Consiglio ad accrescere il suo consenso personale agli occhi degli italiani. Che questo consenso possa poi tradursi addirittura in voti nella misura di cui si parla in un recente sondaggio (addirittura un partito del premier sarebbe accreditato del 14%) è tutto da vedere.

Ora, su come mettere a fattor comune questo risultato ci sono almeno due strategie distinte.

La prima è quella che fa capo al Fatto Quotidiano, il giornale che più si è spinto nel sostegno del presidente del Consiglio nelle settimane dell’emergenza. Travaglio e i suoi tifano apertamente affinché la leadership del Movimento 5 Stelle sia affidata a Conte. Secondo questa tesi questa sarebbe la strada per realizzare l’obiettivo di riconquistare la soglia del 20% e risuperare il Pd come primo partito. La seconda è quella che sembra emergere dal gruppo dei fedelissimi (Casalino, ma non solo) che spingerebbe Conte a lasciare i 5 Stelle e ad occupare uno spazio più al centro, per provare ad aggregare quell’elettorato filo-governativo e moderato che si schierò in passato con Dini e Monti. Insomma una soluzione alternativa per chi non intende seguire il radicalismo moderato e liberista dei Renzi e dei Calenda, che continuano ad annaspare sotto il 2%.

Al Pd interessa relativamente poco cosa pensa di fare Conte con il consenso accumulato in questi mesi. Il suo problema principale rimane quello di essere riconosciuto come un partito che oltre a garantire la governabilità esprima anche una più forte capacità di proposta e di visione strategica. In altre parole il Pd non si schioderà dal 20% se non chiarirà meglio chi vuole rappresentare e per quali obiettivi a medio e lungo termine.

La battaglia sulla scuola potrebbe in qualche modo essere la svolta tanto attesa. È con il governo Renzi e la sua “Buona Scuola” che la principale forza di centro-sinistra ha visto svanire il proprio predominio in quel mondo. Avrebbe un valore strategico riconquistare la scuola e riallacciare i fili con una realtà che è naturalmente portata a schierarsi con le forze di centrosinistra.

È un terreno su cui insistere, così come sicuramente sono mondi importanti quelli di altri lavoratori che si sono sentiti abbandonati in questi anni, come quelli della sanità, della piccola e media impresa manifatturiera, del commercio e dell’artigianato, dell’agricoltura. Insomma, l’ossatura economica del paese, che ora attende soprattutto dal Pd l’impegno per politiche concrete mirate alla giustizia sociale e allo sviluppo.

C’è un tema che sovrasta tutti gli altri e riguarda il fisco e la possibilità di contribuire a creare un modello più equo e giusto di contribuzione alle risorse pubbliche. Come stabilire il contributo che devono dare le grandi imprese e i big della globalizzazione, le grandi banche e i player dell’e-commerce. È qui che la politica dovrà scegliere le priorità. Priorità che nessuno troverà nel piano Colao, sicuramente ben confezionato ma privo delle scelte politiche necessarie per far diventare un libro dei sogni un vero progetto di governo.