Come un novello Cincinnato, è stato prelevato poco più di sei mesi fa mentre zappava l’orticello di Science Po, tra i noiosi figli della borghesia europea, l’arcigna ma assai compromessa intellighenzia della storica università parigina, e il noioso compito di scrivere qualche libro e promuovere algidi convegni sul futuro del continente.



Dopo appena sei mesi Enrico Letta è diventato il padrone assoluto del centrosinistra italiano, il playmaker del futuro presidente della Repubblica, e con qualche concreta chance – impensabile solo poche settimane fa – di vincere le prossime elezioni politiche e diventare il legittimo successore di Mario Draghi.

L’ultimo significativo bottino vede la vittoria al primo turno a Milano, Napoli e Bologna, due collegi alla Camera su due nelle elezioni suppletive a Roma e Siena, in testa nei ballottaggi e con ottime probabilità di vittoria a Roma e Torino. Senza voler contare il successo della Spd in Germania, che non è merito suo ma fa tanto “è cambiato il vento”. Un “en plein” in piena regola, con la ciliegina del ritorno trionfale alla Camera dei deputati, da dove era uscito nel 2014, dopo la defenestrazione da primo ministro per mano di Renzi.



La rivincita è quindi ora in cassaforte. Letta guarda ai prossimi mesi con serenità e senza alcuna intenzione di cambiare linea. Anzi, il suo successo è – questo lo dovrebbero ammettere i suoi instancabili critici – frutto della nettezza con cui ha perseguito la linea di alleanza con il nuovo Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, ha spinto il Pd al sostegno leale di Draghi, ha condotto una permanente polemica con Salvini e la destra, sollevando argomenti che molti commentatori, anche liberal, hanno accolto con fastidio, considerandoli inutili e pericolosi, arrivando addirittura ad addebitare a Letta la volontà di indebolire il super-premier.



Le cose non sono andate come costoro prevedevano. Il Pd – e anche i 5 Stelle – sono oggi le forze più leali a sostegno del governo, mentre la Lega rischia di spaccarsi ad ogni provvedimento, Salvini nervosamente si agita per dimostrare la sua utilità e la Meloni macina voti e consensi di cui potrà fare poco o niente, come dimostra lo sterile successo di Roma.

Tutto semplice? Tutto facile? Nulla è semplice o facile, neanche per il giovane Letta, tornato alla politica italiana con spirito nuovo, rivelando maggiore capacità di movimento e qualche salutare astuzia (una volta si sarebbe detto “grande senso tattico”). Le questioni a questo punto sono tre: cosa fare del Pd, come impedire il crollo dei 5 Stelle sotto il 10% e come rioccupare l’area alla destra del partito, sempre più in preda alla lotta fratricida per la leadership tra Calenda (che qualche voto lo ha preso) e Renzi (che ormai di voti non ne ha più).

Le Agorà democratiche devono necessariamente prendere la forma di una proposta politica. E questa proposta tutti l’aspettano da Letta. Fare un congresso anticipato? Superare il Pd per fondare un nuovo partito? La cosa più importante è che da anni – e dopo tre scissioni – per la prima volta c’è un sacco di gente disposta ad entrare nel partito di Letta. Nel Pd? Domanda superflua, a questo punto è solo una questione di marketing.

Frenare la discesa dei consensi del Movimento non può essere compito di Letta. Almeno questo glielo dobbiamo. Eppure la veloce trasformazione degli ex populisti in una forza europeista, costruttiva e filo-Draghi (quella trasformazione che tanti a sinistra avevano auspicato che facesse la Lega) è merito dell’apertura convinta del Pd. Il punto è come questa scelta deve maturare e come può spingere a conservare almeno una parte del suo radicamento, che non può limitarsi ad alcune zone del Sud. Spetta alla “coalizione” riconoscere al movimento fondato da Grillo un ruolo per il futuro, che non può limitarsi a segnalare quanto fatto nel passato.

La questione alla fine è che fare con Renzi e Calenda. Come tutti sanno, Letta non ha chiamato nessuno dei due per chiedere loro di sostenere Gualtieri a Roma. Però entrambi si sono affrettati a dichiarare che l’avrebbero fatto. Un piccolo esempio di come intende muoversi Letta verso queste forze alla sua destra, consapevole che se queste non si piegano all’accordo con il Pd non vanno da nessuna parte (vista la legge elettorale e lo stato della destra in questo momento). Insomma, Letta sembra dire, in modo pacato e senza tanti giri di parole, “miei cari, la sinistra moderata e riformista adesso la rappresento io”.

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