Zingaretti aveva programmato il suo viaggio negli States già questa estate, dopo la nascita del Conte 2. Il suo Pd, così repentinamente tornato a responsabilità di governo, aveva ed ha bisogno di ritrovare un respiro internazionale e una più chiara collocazione nella vasta area della sinistra democratica mondiale.
Soprattutto dopo le scorribande di Renzi, saltellante tra Macron, gli amici emiri e qualche lobbista di troppo.
Dunque non è proprio un caso se Zingaretti ha deciso di ripartire da Bill Clinton. Non da Hillary, la cui rovinosa sconfitta alle presidenziali del 2016 è all’origine di uno dei periodi più bui della storia dei progressisti. Bensì dal marito, colui che aveva avuto il merito, verso la fine del secolo scorso, di chiudere la lunga pagina del reaganismo e che aveva tentato di fondare (ricordate l’incontro di Firenze nel 1998?) il primo nucleo di quella che doveva essere la nuova sinistra democratica mondiale.
Ma il viaggio americano di Zingaretti sembra avere tutte le caratteristiche di una “pausa di riflessione”, dopo mesi vissuti in maniera caotica, spesso senza aver chiara la direzione di marcia, con decisioni da prendere in poche ore.
La sensazione diffusa è che Zingaretti abbia ben strette nelle sue mani le carte necessarie per condurre il gioco nelle prossime settimane. All’opposto dei suoi competitors. I suoi interlocutori dentro e fuori l’attuale maggioranza sembrano veramente a corto di idee.
Tocca a lui decidere il da farsi. E non può certo continuare a giocare di rimessa.
Il punto che lo assilla di più in queste ore è la crisi verticale – inattesa e drammatica – che ha colpito il Movimento 5 Stelle, riducendolo in un arcipelago senza un centro di gravità, teatro di una guerra di tutti contro tutti. Una crisi talmente profonda che ha azzerato in poche settimane ogni gerarchia interna.
La débâcle subita in Umbria ha aperto una voragine, le conseguenze sono assai più gravi di quelle che si immaginavano dopo il voto.
Di Maio è sempre più isolato e in difficoltà. Parla, dichiara, si agita, anche più di una volta al giorno, ma non riesce a nascondere la sua crisi verticale di leadership.
Lo stesso Conte, che in poche settimane ha perso l’alone di “uomo della provvidenza”, ne sembra contagiato. Grillo assiste alla distruzione della sua creatura senza muovere un dito e senza fare un tentativo per cambiare il verso delle cose. Lui lo aveva detto che sarebbero finiti così.
Che sorte quella del Pd: proprio ora che vi era la concreta possibilità di costruire un’alleanza duratura, il partner svanisce come un pupazzo di neve al primo sole di primavera.
Occorre fare rapidamente nuove strategie e nuovi calcoli. Nel breve periodo ci si misurerà nelle elezioni regionali di gennaio. Si tenterà un nuovo timido accordo in Calabria (circola il nome di un candidato civico scelto a Roma) e in Emilia-Romagna non si andrà oltre una “desistenza” per salvare capre e cavoli.
Ma se lo sguardo va più avanti non si riesce a capire a cosa realisticamente si va incontro.
In fin dei conti il Pd sta prendere atto che l’attuale governo rafforza Salvini e la coalizione di centro-destra oltre ogni immaginazione. La minaccia di Renzi, che dopo aver praticamente imposto l’attuale maggioranza vuole inchiodare il suo ex partito al governo Conte, appare addirittura come una beffa. Il leader di Italia viva ritiene il voto un “suicidio di massa”, ma pretende che il peso dell’attuale maggioranza ricada esclusivamente sul Pd.
Zingaretti anche questa volta non ha molto tempo per prendere le sue decisioni. Tra qualche settimana – chiuso il percorso parlamentare della legge di bilancio – c’è già chi è pronto a costringerlo ad un’estenuante trattativa per una legge elettorale proporzionale. Sono le stesse persone che stanno da giorni cercando di raccogliere le firme per richiedere il referendum confermativo sul taglio del numero dei parlamentari. È in questa “finestra temporale” che Zingaretti ha la possibilità di spingere la situazione verso il voto, ma con la vecchia legge e con il vecchio numero di seggi da assegnare.
Il punto torna ad essere sempre lo stesso: come la mettiamo con il pericolo Salvini, con il fascismo alle porte?
Paradossalmente l’aiuto più grande Zingaretti lo sta ricevendo proprio da Salvini. Lentamente, dopo qualche settimana passata ad assorbire i lividi delle batosta presa ad agosto, Salvini ha intrapreso un percorso che pochi hanno compreso sino in fondo. Il discorso di Piazza San Giovanni tutto incentrato sull’economia, l’improvviso “endorsement” per Draghi presidente della Repubblica, i contatti per entrare nel Partito Popolare europeo e quindi in maggioranza in Europa, i temi caldi come l’immigrazione e la sicurezza che lasciano il posto a quelli più classici cari all’elettorato moderato come la giustizia, prima di ogni cosa, e le tasse. Due bandiere del centrodestra, vessilli per togliere spazio al progetto di Renzi e rendere meno agitati i sogni della borghesia produttiva del Paese.
Zingaretti sa di dover affrontare una sconfitta elettorale inevitabile contro un centro destra ricompattato. Ma esso non è più il pericoloso spauracchio agitato ad arte nei mesi scorsi.
Due cose sembrano più chiare dalla crisi di agosto: da un lato la “romanizzazione” del Movimento altro non era che l’inizio della sua fine; dall’altro Salvini, che pure ha commesso gravi errori in passato, sembra essere tornato un leader di destra tutto sommato accettabile, nulla di peggio rispetto a quelli che circolano in altre parti d’Europa e del mondo.