Quando si scelgono i vice-ministri e i sottosegretari l’attenzione sul governo appena formato è già scemata in maniera considerevole.
Le nomine e il giuramento a Palazzo Chigi sono solo l’ultimo atto di una lunga serie di passaggi liturgici – che si ripetono sempre uguali, a cominciare dal rito estenuante delle consultazioni al Quirinale – e, per quanto possano produrre tensioni all’interno dei partiti, non potranno mai cambiare l’esito finale: il governo c’è e non può certo cadere proprio su questo. E un po’ come andare al cinema e fermarsi a guardare i titoli di coda. Il film è finito e in sala restano solo gli addetti ai lavori.
L’interesse sulla distribuzione dei ruoli minori nel governo è principalmente proprio di quelle persone che devono fare i conti, a tutela dei propri interessi o di quelli delle loro aziende, con norme e leggi e che in un modo o nell’altro devono trovare una strada per dialogare con il governo. Saranno infatti proprio loro, la cosiddetta seconda linea, a svolgere il ruolo di ufficiali di collegamento tra la politica ed il paese reale.
È facile fare dell’ironia: si distribuisco 43 ruoli di governo, cosa può esserci di meglio per fare battute sulla famigerata spartizione di poltrone.
In realtà – superata l’inevitabile fase delle battute qualunquiste – può essere utile una riflessione sui motivi che hanno condotto i vertici di partito a scegliere proprio quei nomi ed a escludere degli altri.
Per capire il Pd servono tre chiavi di lettura: l’appartenenza a una corrente, la provenienza territoriale e il disporre o meno di una competenza di settore. Seguendo questo schema possiamo cogliere qualche novità: Zingaretti ad esempio non è andato poi così male, mentre Renzi ha voluto inviare un messaggio molto chiaro ai suoi. Infine alcune Regioni – come la Campania e la Toscana – sono uscite davvero malconce dalla vicenda.
Zingaretti ha cercato di utilizzare il pacchetto di nomine per provare a riorganizzare il partito in vista di un congresso straordinario, che ormai gli deve apparire come una necessità inderogabile. La segreteria nominata appena un paio di mesi è stata completamente cancellata con il passaggio di molte persone ad incarichi governativi. Entrano nel governo ed escono dalla segreteria oltre alla De Micheli (vice-segretaria), ed a Amendola, Provenzano e Bellanova, altri membri autorevoli tra cui tre figure-chiave come il coordinatore Martella, il responsabile del territorio Morassut, e la responsabile enti locali Marina Sereni. In questo modo Zingaretti prova a riorganizzare la squadra di partito intorno ad un solo vice-segretario (Orlando) ed a un nuovo coordinatore (probabilmente Oddati). Ci sono tutte le condizioni perché il gruppo dirigente zingarettiano sia più compatto e più determinato a raggiungere l’obiettivo di rafforzare il segretario e fronteggiare gli eventuali attacchi.
Anche le scelte di Renzi rivelano una strategia precisa. Da un lato egli premia i più fedeli, a cominciare da quelli che hanno difeso il ribaltone senza palesare il minimo dubbio. Dall’altro le persone scelte sembrano molto adatte a rafforzare la tattica che il gruppo seguirà nei prossimi mesi: litigare ogni giorno con i grillini, bloccare Zingaretti in un’estenuante e continua mediazione con Conte e i 5 Stelle. Per ottenere questo risultato basterà sollevare ogni giorno temi controversi e stuzzicare così la reazione degli alleati. Proprio come ha fatto la combattiva ministra all’Agricoltura Bellanova, che a freddo ha dichiarato il suo sostegno agli Ogm e all’approvazione del Ceta, posizione diametralmente opposta a quella del Movimento.
La nascita di un nuovo gruppo parlamentare promosso da Renzi è una minaccia reale e probabilmente prenderà corpo alla Leopolda. È anche vero che senza la certezza di un ritorno ad una legge proporzionale pura, è difficile – come pretende Renzi – ottenere anche la “neutralità” del Pd.
Zingaretti dovrebbe allontanare il più possibile la decisione e rinviare a data da destinarsi la discussione sulla nuova legge elettorale.
Infine il territorio. Nessuna Regione esce particolarmente bene, tranne il Lazio. Ad esempio la stessa Lombardia, che pur rimane una roccaforte di Renzi (3 su 4), è terra di tantissimi delusi, a cominciare dal sindaco di Milano Sala che si è visto rifiutare le sue due proposte (Fiano e Quartapelle).
Duramente punite due Regioni che normalmente fanno il pieno di sottosegretari: la Campania e la Toscana. La Campania di De Luca gode di un gruppo parlamentare regionale tra i più ostili a Zingaretti: ma per loro non è stato trovato neanche un posto, nonostante l’enorme pressing fatto nelle ultime ore. Non è riuscito ad entrare neanche il figlio del governatore, che aspirava addirittura alla Farnesina.
Malissimo anche la Toscana, con zero ministri e zero sottosegretari. Questa situazione forse fotografa più di ogni altra cosa il cambiamento di questi ultimi anni. In fin dei conti sentiremo sempre meno parlare toscano, a cui non avevamo mai fatto l’abitudine, e sentiremo più spesso parlare romano. Il segno distintivo del nuovo potere è infatti la rinascita di Roma e del Lazio. Non solo per quello che sta avvenendo all’interno del consiglio regionale, dove Paola Taverna ha spinto i 5 Stelle molto avanti nella costruzione dell’alleanza giallo-rossa, ma soprattutto per il numero di romani presenti nel nuovo governo. Da Paolo Gentiloni ad un bel gruppo di sottosegretari romani, la Capitale si prende una rivincita e dopo un lunghissimo periodo di esponenti di governo del Nord (Prodi, Berlusconi, Monti) e della Toscana (Letta e Renzi), riconquista il ruolo che le spetta nel governo del Paese.