Come spesso capita gli imprevisti e le difficoltà invece che peggiorare la situazione diventano occasione di rilancio ed energia utile per superare le difficoltà.

Sembra questa la sorte del governo giallo-rosso, alle prese da qualche settimana con guai molto seri. Prima gli indiani della Arcelor Mittal che vogliono spegnere gli altiforni di Taranto, poi l’acqua alta a Venezia e il fango in mezza Italia. E poi La battaglia elettorale in Emilia, prima annichilita dalla nuova campagna di Salvini ma poi ravvivata dalle “sardine” comparse all’improvviso a Bologna. Tutte queste cose segnano un cambiamento di passo. Reagire o morire, sembra il motto più adatto al governo Conte, nato in fretta e furia solo tre mesi fa.



Il Pd cerca di capire meglio cosa deve fare. Riuniti gli stati maggiori a Bologna per una specie di congresso programmatico, Zingaretti e i suoi si interrogano sulle prossime mosse.

Fino a qualche giorno fa, prima della partenza per la visita negli Stati Uniti, il segretario del Pd sembrava orientato a lasciare che le cose andassero come stavano andando, cioè male. Al punto da considerare le elezioni anticipate un’inevitabile conseguenza più che una vera e propria scelta da compiere.



Anche l’incognita sul risultato del voto regionale in Emilia-Romagna in fin dei conti rappresentava un altro motivo per mettere fine a un’esperienza di governo mal digerita, sin dall’inizio, dalla base del Pd e dei 5 Stelle, e che non riesce a trasformarsi in un’alleanza stabile.

In sala stampa si scherza, ma fino ad un certo punto. A Taranto la svolta “giudiziaria” ha cambiato la lettura della vicenda: non è più una questione di “scudi” prima concessi e poi tolti, ora la questione è salvare l’impianto, impedirne la chiusura, e non si esclude più nulla pur di impedire lo spegnimento dei forni. Siamo tornati, è la battuta più gettonata, all’occupazione delle fabbriche del 1919.



Chi ha scelto il tema della tre giorni bolognese “Gli anni 20 del 2000. Tutta un’altra storia” ha cercato volutamente di stabilire un nesso con i drammatici anni 20 del secolo scorso. Del resto si è fatto un grande uso in questi mesi delle categorie di analisi usate per capire la genesi di uno dei periodi più bui della storia d’Europa: le divisioni della sinistra, l’incapacità ad affrontare la crisi economica e sociale del primo dopoguerra, la reazione nazionalista della piccola borghesia, il fascismo come fenomeno di massa.

L’incubo di tornare in quel clima e in quella situazione accompagna tutta la storia degli ultimi anni. Una guerra vera e propria in Europa non c’è stata più, ma le conseguenze della durissima crisi economica iniziata nel 2008 assomigliano molto alle macerie lasciate dal primo e secondo dopoguerra.

E la sinistra, che sembra aver perso il proprio contatto con la realtà, annaspa senza trovare un centro di gravità.

Gli eventi di questa settimana hanno spinto il Pd ancora più a sinistra. Forse troppo. Si sente negli interventi, si capisce dagli umori della platea. Del resto era questo il primo compito di Zingaretti, a cui si era chiesto di ricondurre il partito nel suo alveo naturale e ricongiungerlo con il suo popolo, dopo gli anni degli “strappi” renziani.

Il secondo impegno era quello di ricostruire un partito inteso più come un collettivo che non la mera somma algebrica di correnti in lotta tra di loro e composte da militanti disposti a tutto, o di un partito con un solo uomo al comando.

Il terzo impegno era quello di dotare il Pd di un nuovo programma, condizione essenziale per poter ritornare ad essere credibile verso un elettorato che percepisce il Pd come il partito dell’establishment, privo di una propria ed autonoma visione del cambiamento.

L’impressione ricavata a Bologna è che questa settimana abbia cambiato le carte in tavola: il viaggio in America, il governo che reagisce alle calamità climatiche, la vicenda Ilva che racchiude in sé la battaglia per il Sud e quella per il lavoro, la frontiera emiliana che improvvisamente si riaccende, grazie ai ragazzi che hanno riempito Piazza Maggiore. Per il Pd sono tutti segnali premonitori. La maggioranza di governo sembra essersi ricompattata. Lo stesso Renzi, che ha tentato di condizionare il fine settimana con un’iniziativa da lui stessa definita “shockante”, ha ottenuto scarsa attenzione.

Cosa dirà Zingaretti lo sapremo domani, intanto la novità è che il suo partito – negli ampi saloni affrescati di Palazzo Re Enzo – sembra aver ritrovato entusiasmo e compattezza. Hanno applaudito dopo anni i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil, illustri intellettuali, un padre gesuita, un teologo, Pasquino, Prodi, Orlando.

Altro che Pd da svuotare!

Se ci fosse ancora bisogno di riconfermarlo, la sinistra prima di ogni altra cosa è un luogo dell’anima, il suo partito potrà sbagliare ma non potrà mai essere sradicato, la stessa Emilia non sembra voler cedere armi e bagagli a Salvini.

Tutto ciò è rassicurante, ma è anche la ragione di una sfida che si complica e che non può essere risolta semplicemente chiedendo il voto anticipato.