Il peggior incubo per Sergio Mattarella sono consultazioni che si avvitano su loro stesse, sulla falsariga di quanto accadde un anno fa, quando nacque a fatica il governo giallo-verde. La scelta di imporre tempi strettissimi alla crisi nasce proprio da questo. Tutto in un giorno e mezzo, e leaders che devono prepararsi per un autentico terzo grado. Vuole chiarezza il Capo dello Stato, e non permetterà tatticismi. Domanderà a ciascuno quali sono le rispettive disponibilità, e non darà un tempo infinito alle trattative fra i partiti. Oggi e domani i colloqui ufficiali, poi tra venerdì e sabato la sua scelta. Viene da dire che incarichi esplorativi hanno poche probabilità di essere assegnati. Bisognerà andare a colpo (quasi) sicuro, altrimenti sarà meglio prendere atto che la legislatura non è in grado di proseguire, e quindi rassegnarsi a firmare il decreto di scioglimento delle Camere.



Al Quirinale per tutta la giornata di ieri Mattarella ha seguito con i suoi collaboratori l’interminabile dibattito svoltosi nell’aula del Senato. Il presidente ha registrato aperture e chiusure, bordate e segnali di attenzione. È perfettamente conscio che si parte da uno schema, quello che vede una possibile convergenza fra grillini e democratici. Non si straccia le vesti, Mattarella, dal momento che siamo tornato con il Rosatellum a un sistema sostanzialmente proporzionale, e che quindi le maggioranze si formano nel gioco parlamentare. Era stato lui stesso a rilevarlo un anno fa, durante le consultazioni che portarono al governo Conte: “nessun partito – disse il 5 aprile 2018 – dispone da solo dei voti necessari per formare un governo. È indispensabile, quindi, in base alle regole della nostra democrazia, che vi siano intese fra più parti politiche per formare una coalizione”.



Non è sfuggita agli uomini del Colle una singolare coincidenza: nel momento esatto in cui in Senato Matteo Renzi randellava Salvini e lanciava segnali ai 5 Stelle, Nicola Zingaretti dettava alle agenzie una nota pesantissima contro Giuseppe Conte, accusandolo di aver taciuto per quindici mesi davanti alle sgrammaticature istituzionali del suo ministro dell’Interno. Per i 5 Stelle proprio da Conte bisogna ripartire, per il segretario del Pd evidentemente no. Eppure il premier uscente ha fatto di tutto per accreditarsi come leader moderato in grado di guidare un nuovo esecutivo giallorosso. È di tutta evidenza che il punto critico che deciderà l’esito della crisi è dentro il Pd, con Renzi fautore di quell’accordo con M5s che silurò quindici mesi fa, e Zingaretti gelido sostenitore dell’opportunità del ritorno al voto.



Bruciato Conte, resta impensabile che i 5 Stelle accettino un premier gradito al Pd. E se nell’assegnare l’incarico Mattarella si prenderà qualche giorno sarà solo per consentire all’attuale premier di partecipare venerdì e sabato al G7 di Biarritz da dimissionario, ma non ancora del tutto fuori gioco. In ogni caso, il punto critico che determinerà l’esito della crisi appare il confronto dentro il Pd, con i renziani nettamente in vantaggio sul piano comunicativo, della narrazione di questa nuova convergenza come utile e necessaria per il bene del paese. Il favore della grande stampa a questo schema appare evidente.

L’unico schema alternativo al governo giallorosso in grado di evitare le urne sarebbe quello di una ricomposizione di una convergenza fra 5 Stelle e Lega, che in astratto non si può escludere, ma che non potrebbe vedere Salvini nella compagine di governo e – di conseguenza – neppure Luigi Di Maio. I segnali in questa direzione non mancano, soprattutto dal lato leghista.

Alla fine sarà Mattarella a dovere operare una scelta, anche se lui non farà nulla per imporre una soluzione piuttosto che un’altra. Anzi, se qualcuno – come i renziani – si attende che dal Capo dello Stato possa venire l’invito a farsi carico del governo con i 5 Stelle in nome di un interesse superiore, la delusione è dietro l’angolo. Certi interventi che si son visti con Scalfaro e Napolitano ben difficilmente saranno replicati dall’attuale inquilino del Quirinale.