In qualunque momento arriverà la firma di Sergio Mattarella al decreto rilancio, sarà sempre tardi. E – sia chiaro – senza alcuna responsabilità del Capo dello Stato. Annunciato in pompa magna dal premier in diretta tv mercoledì scorso, dopo cinque giorni non ha ancora visto la luce. Dopo il turbinio di bozze della vigilia, è calata una cortina di silenzio intorno al lavoro di limatura del testo. Cinque giorni almeno di riscritture e cancellazioni che hanno del clamoroso, spiegabile solo con gravi carenze riscontrate dagli esperti.
Quali siano queste carenze non è dato ancora sapere, sarà interessante il confronto fra le bozze e il testo definitivo. Conte aveva annunciato la pubblicazione entro la giornata di domenica, i ministri Catalfo e D’Incà entro quella di ieri, lunedì, invece nulla. Pur ammettendo che sia difficile scrivere in poco tempo un provvedimento di portata ampissima (nell’ultima versione nota eravamo a 469 pagine e 256 articoli, una specie di volume della Treccani), l’attesa si sta allungando decisamente troppo.
Nei corridoi della politica si sussurra di grossi problemi in primo luogo con le coperture, decisamente insufficienti per una manovra titanica, almeno sulla carta, 55 miliardi, come due leggi di bilancio in una. E si sa, nessuna questione è più politica dei soldi, specie se mancano. Non vengono esclusi poi anche problemi sulla parte normativa, comprese contraddizioni fra singole parti dello stesso decreto. Ne consegue un gran via vai di mail con allegati, fra gli uffici legislativi di Palazzo Chigi, del ministero dell’Economia e della Ragioneria generale dello Stato, che deve concedere la cosiddetta “bollinatura”, una sorta di certificazione di coerenza del quadro economico. Naturalmente ogni tanto qualche bozza finisce anche nella casella dei collaboratori di Mattarella, per una valutazione informale. Ma dalle parti del Quirinale il testo definitivo non si è ancora visto.
Di fronte a una situazione che si fa di ora in ora più imbarazzante l’unica soluzione che la maggioranza ha saputo escogitare è fare finta che il decreto già sia in vigore. Ci si è accapigliati così sugli ingenti aiuti chiesti da Fca, dal momento che la sua sede non è più sul territorio nazionale, così come sulle scuole paritarie dimenticate. In questo modo, però, si sono messi in sordina insidie reali, come il buco normativo che si è venuto a creare in materia di licenziamenti, che erano vietati solo sino al 17 maggio, e attendevano una nuova proroga del blocco.
L’unico elemento che emerge con chiarezza è che i soldi non arrivano, e che il ritardo nel varo del decreto rilancio si va ad assommare a quelli precedenti, che hanno visto rimanere sulla carta buona parte delle provvidenze già decise con i provvedimenti precedenti. Nel confronto con gli altri paesi sembra che in Italia la burocrazia sia stato un freno insopportabile, quasi che si facesse di tutto per evitare di spendere. Un risparmio sulla pelle del sistema produttivo, sospetto che sarebbe bene fugare.
Il sistema produttivo italiano avrebbe bisogno di prospettive ben diverse. Ben più solide. Di una traiettoria chiara per la ripresa, che non si vede affatto dietro le mosse del governo. Tutto sembra lasciato alla casualità, alla giustapposizione delle richieste delle varie categorie, senza che emergano priorità, senza che si tenga conto che l’Italia non è tutta uguale, e ci sono zone ormai fuori dal contagio, che potrebbero accelerare il ritmo del riavvio.
Sulla velocità del sostegno all’economia, e sull’efficacia dello stesso, il governo si gioca tutto. C’è un malessere sociale che cova nel Paese che solo una rapida ripresa economica terrà sotto il livello di guardia. Un malessere che ha molte facce, l’industriale che chiude, il ristoratore che non ce la fa, come pure i loro dipendenti che perderanno il lavoro, gli autonomi, le legioni di precari.
In assenza del decreto rilancio Conte ha rinviato di due giorni l’informativa al Parlamento prevista per oggi. Ma non potrà eludere all’infinito le proprie responsabilità. A decidere la durata del suo governo sarà assai più il malcontento socio-economico che qualsiasi congiura di palazzo.