Il primo ministro cinese Wen Jiabao ha iniziato il 27 gennaio un ampio giro in Europa. Sarà in Svizzera, Germania, alla Unione Europea, in Spagna e Gran Bretagna. Chiaramente assenti sono due grandi tappe: Francia e Italia.
La scelta di ignorare la Francia ha un motivo semplice. Il presidente francese Nicolas Sarkozy ha scelto di dare grande rilievo a un suo incontro con il Dalai Lama nonostante le mille richieste cinesi in senso contrario. L’incontro ha dato una grande mano politica al Dalai Lama in un momento delicato per la Cina, visto che si temono proteste e rivolte in Tibet per il cinquantennale della insurrezione anticinese il 10 marzo.
L’assenza dell’Italia in questo giro è cosa meno chiara e forse potrebbe offrire spunti di riflessione a Roma per tutta la sua politica, estera ma anche interna.
Uno dei motivi è certo l’onoreficenza che il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha deciso di concedere al Dalai Lama a febbraio. Pechino aveva chiesto di non farlo, ma Alemanno ha insistito e per di più Wen rischiava di essere a Roma proprio nei giorni in cui c’era il Dalai, un insulto politico.
Ma c’è anche altro, c’è l’assenza di un’agenda vera, politico-commerciale tra i due Paesi. I leader cinesi sono molti pratici e fissano scopi precisi ai loro viaggi, ma c’era poco o nulla di chiaro e preciso da discutere tra i due Paesi.
Questo è un problema che ormai si protrae da anni in Italia e riguarda indifferentemente governi di destra e sinistra. Il precedente governo Prodi aveva sì un entusiasmo per la Cina ma poi non è riuscito a dare concretezza ad alcun progetto. Per esempio, ha proposto ai cinesi di comprare i porti, ma poi la vaghezza dell’offerta ha spinto le aziende di Pechino, pur interessate all’offerta, a ritirarsi.
In più la questione della Cina nella opinione pubblica italiana sembra imprigionata nella questione dei diritti umani. Ma la Cina oggi è molto di più che questioni di diritti umani, e poi paradossalmente l’Italia solleva oggi tali problemi mentre negli anni ’70 e ’80, quando i diritti umani erano in condizioni molto peggiori di oggi venivano bellamente ignorate. Allora destra e sinistra erano entusiaste della Cina, la destra perché Pechino era contro Mosca, la sinistra perché Pechino era comunista.
Oggi sembra il contrario: la destra vede il Paese comunista, la sinistra vede il capitalismo del suo mercato. Il tutto condito con una punta di razzismo per gli immigrati cinesi che non pagano le tasse. Ma l’Italia forse deve smettere di vedere la Cina come una proiezione dei suoi fantasmi interni, ne va del suo interesse nazionale e del suo futuro.
La Cina oggi è la terza potenza economica del mondo e tra qualche anno diventerà la seconda superando il Giappone. La sua potenza commerciale e finanziaria è ancora maggiore, visto che Pechino è il più grande creditore degli Usa, avendo acquistato circa 1.200 miliardi di dollari di obbligazioni americane. Già oggi l’America tratta la Cina come il grande interlocutore strategico.
Inoltre, una folla di piccole e medie imprese arrivano in Cina alla spicciolata cercando occasioni e opportunità, e spesso trovandole. Si tratta allora di costruire una politica italiana con la Cina fuori dai luoghi comuni e i facili pregiudizi. Per il governo italiano si tratta di capire cosa vuole fare con la Cina.
La Cina ha per l’Italia una simpatia quasi senza rivali. A Tianjin la municipalità ha restaurato a sue spese il quartiere della legazione italiana: non è stato fatto per nessun altro Paese. I cinesi in Italia si sentono bene, a loro agio. Sono elementi importanti ma non bastano certo a fare una politica.
Il peccato grave dell’Italia appare l’assenza ormai più che decennale di una politica estera. Le azioni italiane sembrano frutto di scelte improvvisate, dettate all’ultimo minuto, e che quindi possono essere rovesciate dal prossimo governo in carica.
Negli anni della Dc l’Italia aveva una posizione complessa, articolata, ma coerente. Discuteva con l’URSS, forte anche dei rapporti del Pci, aveva una sponda privilegiata con i Paesi arabi, ma continuava a essere lealissima agli Usa. Questa complessità dava un valore e un rilievo particolare all’Italia in un periodo di grandi tensioni della guerra fredda. Ma questo era frutto di una strategia meditata, non nasceva da impulsi momentanei.
Oggi non c’è una strategia rispetto alla nuova geografia politica del mondo, né c’è una strategia sulla Cina. Questi elementi pericolosissimi per un Paese, visto che secondo la tradizione cinese, la politica estera è funzione di quella interna e le due sono strettamente correlate. L’apertura di Mao a Nixon negli anni ’70 creò le basi vere su cui la politica di riforme di Deng poté nascere e crescere. In altre parole senza l’una non ci sarebbe stata l’altra.
Ora senza una vera strategia di politica estera di Stato, largamente condivisa da governo e opposizione, come può l’Italia decidere cosa fare nella sua politica interna, dove su molti fronti ha bisogno di grandi cambiamenti? Vista da qui la risposta è semplice: non può.
Cosa vogliono le imprese italiane dalla Cina e in Cina? Cosa vuole il turismo, la finanza, la ristorazione italiana dalla Cina? Per esempio, su queste domande interne si costruisce una politica estera. Quali sono le imprese che fanno meglio in Cina e perché, come ci sono riuscite? Le strategie non si costruiscono in poche ore, ma forse la Cina potrebbe essere l’argomento che dà una spinta al ragionamento per creare questa politica estera.