Il fondamento della democrazia occidentale è il rapporto tra tasse e rappresentatività: i cittadini pagano le tasse allo Stato e chiedono di poter avere un controllo su queste spese attraverso le elezioni di propri rappresentanti che governano lo Stato. Se questo è il principio allora cosa succede se un territorio non paga le tasse? O meglio se spende di più di quanto incassa?
Le domande riguardano in generale l’Italia, con un debito pubblico più grande di tutto il prodotto interno lordo, e in particolare quelle regioni d’Italia, nel Sud, che spendono più di quanto incassano. Queste sono le domande che emergono anche dall’ultimo numero di Aspenia e dall’intervento, al lancio del numero, del ministro dell’economia Giulio Tremonti.
Il problema è reale e oggettivo anche in un sistema autoritario come quello cinese. Pechino sta viaggiando verso un sistema di maggiore rappresentatività democratica. Oggi nel Paese l’economia privata sta dando un contributo crescente al bilancio economico complessivo, ma lo stato di fatto consente un’ampia evasione fiscale da parte dei privati. In cambio ottiene un sostegno politico da parte di questi privati che non si interessano alla politica.
C’è quindi uno scambio politico molto significativo che si regge in base al fatto che le entrate dello Stato arrivano per la maggior parte dalle imprese pubbliche e che lo Stato complessivamente spende poco, con sanità e istruzione gestiti in forma ampiamente privatistica, e ha un deficit rispetto al Pil ben sotto il 60%.
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Le imprese statali oggi sono diventate più efficienti e contribuiscono in parte crescente ai bisogni dello stato cinese. Ma nei prossimi 20, 30 anni, quando lo Stato avrà bisogno di spendere di più perché avrà bisogno di far crescere la spesa sociale, il governo avrà anche bisogno di far pagare più tasse ai privati e quindi romperà il patto politico attuale e dovrà concedere più potere di controllo ai privati. In altre parole più tasse dai privati significherà maggiore democrazia in Cina.
Ma che democrazia è se si da il voto a chi non paga le tasse? Perché dovrebbe votare, quindi partecipare al processo di selezione democratica del governo, chi spende soldi che non sono suoi? Le domande valgono naturalmente in linea di principio e pongono una questione molto delicata, ma tanto più vera quando la profonda sfasatura tra contributo fiscale e spesa pubblica si associa con altri due fenomeni crescenti in alcune regioni del Meridione d’Italia.
Negli ultimi vent’anni l’aumento di spesa pubblica al Sud non ha portato a una diminuzione del divario di sviluppo tra Nord e Sud. Inoltre la penetrazione e pervasività della criminalità organizzata al Sud è aumentata e la spartizione dei finanziamenti pubblici è oggi il più grande affare di questa criminalità.
Quindi ci sono fenomeni che si incastrano e si congiungono: c’è divario di crescita tra Sud e Nord che ha smesso di diminuire in un periodo in cui la criminalità è diventata più potente e ha un interesse crescente nelle commesse pubbliche. Tali commesse possono oggettivamente essere guidate attraverso il controllo della politica che in Italia si ottiene attraverso la vittoria elettorale.
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Tale incastro crea danni enormi all’Italia dove un terzo del Paese rimane arretrato rispetto agli altri due terzi, enormi risorse pubbliche sono spese per arricchire settori che poi inquinano tutta l’economia nazionale. La soluzione autentica di questo incastro è politica: di commissariare non semplicemente le casse delle Regioni in deficit, ma commissariare la politica di quelle Regioni. In altre parole occorrerebbe togliere il diritto di democrazia e di voto nelle regioni meridionali più povere e a più alta densità mafiosa.
Naturalmente si tratterebbe di una scelta politica molto forte, e per molti versi iniqua verso la maggioranza della popolazione di quelle regioni che mafiosa non è. Ma in realtà ciò è proprio alla scopo di far crescere quelle regioni che sono oppresse da una morsa oggettiva di mafia e sottosviluppo.
Né la sospensione delle elezioni è garanzia unica di una sconfitta di criminalità e sottosviluppo in certe regioni. Certo questa sospensione del voto deve essere associata a una serie di altre misure economiche e di ordine pubblico, ma la sospensione del voto è probabilmente un passo essenziale per eliminare il potere di accesso delle mafie alla politica.
In pratica tale misura sarà estremamente difficile anche da esaminare seriamente. Un’intera classe politica meridionale, che partecipa oggi al processo decisionale nazionale, dovrebbe essere sacrificata, spesso anche ingiustamente, visto che la maggioranza di quei politici è di certo lontana anche da sospetti mafiosi.
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Perché degli uomini giusti meridionali dovrebbero sacrificare la loro carriera per obiettivi lontani, discutibili e incerti allo scopo di dare il potere a un ceto politico settentrionale che già 150 anni fa occupò il Meridione e certo non ne aiutò lo sviluppo?
Ma il problema nodale è questo: il fallimento di una classe e di un sistema politico meridionale negli ultimi 20 anni circa. Se questo problema politico non si risolve l’Italia, alla vigilia del suo 150° compleanno, si spaccherà sempre più nei fatti e forse anche a livello formale.