Caro direttore,
con tutto il rispetto e l’affetto possibile per IlSussidiario.net, che puntualmente mi dona lo spazio per le mie riflessioni, e per Mario Mauro, credo di dover dire che l’editoriale del 16 dicembre a firma di Mauro sia profondamente sbagliato. Che significa infatti “dobbiamo tutti insieme dire ‘basta’ al direttorio franco-tedesco!”? È una frase di quelle che si urlavano in piazza durante la rivoluzione culturale: dobbiamo dire basta all’imperialismo americano, dobbiamo dire basta alla borghesia, al revisionismo sovietico ecc. un po’ come si strillava in Italia, ne sono sicuro, negli stessi anni: basta ai fascisti, ai capitalisti, alla Chiesa, e via dicendo.
Sono slogan emozionali e fuorvianti, poiché non fanno ragionare, mi perdonino tutti. Sono buoni per mobilitare le folle, ma è questo che Mauro vuole fare? Pensa che così si risolvano i problemi dello spread, che per le folle sono astrusi come testi di scolastica medievale?
Il problema nello specifico non è il basta a Sarkozy o altri, il problema è chi dirige l’Europa e in che direzione. Il sotto testo di Mauro è: deve essere la Commissione, non un paio di paesi. Ma la Commissione non ha poteri, e tali poteri devono essere ceduti dagli Stati alla Commissione, cosa che gli Stati, specie Germania e Francia, non faranno mai – a meno che non siano convinti della convenienza per loro di tale gesto politico, o della necessità generale di tale passaggio di poteri.
Occorrerebbe quindi, per intervenire nel duopolio del Merkozy, proporre argomenti per l’unificazione, per l’Italia e per l’Europa. Si urla, invece, se si vuole fare una rivoluzione. Credo che nei geni del Sussidiario non ci sia però la rivoluzione – e giustamente – e che la mancanza di argomenti di Mauro sulla questione sia parte di una generale debolezza della politica italiana, impantanata nelle diatribe locali e quindi incapace di essere chiara su un orizzonte europeo.
Immodestamente, proprio perché non basta dire “basta”, proporrei qualche riflessione e spunto su cosa l’Italia può e deve fare per entrare nel duopolio Merkozy e spingere poi, se vorrà, per un trasferimento di poteri alla Commissione dagli Stati nazionali.
Occorre apprestare una manovra che liberalizzi il mercato, tagliando le gilde grandi prima delle piccole, e privatizzi asset statali, quindi abbassi rapidamente tutto il debito pubblico, e poi appresti deregolamentazioni per dare il via allo sviluppo. Queste sono misure politiche, non economiche, perché toccano tanti interessi costituiti in Italia, ma se l’Italia vuole avere un ruolo in Europa non può farlo cercando di trascinarsi dietro strutture feudali. Con queste misure politiche l’Italia, poi, avrebbe il peso di chiedere liberalizzazioni analoghe a Francia e Germania in modo da creare davvero un mercato unico europeo, senza Stati (o almeno con meno Stati) che proteggono imprese locali.
Quindi l’Italia chieda un’autorità fiscale europea affidata a un francese o un tedesco, come testimonianza che l’Italia è a posto e non teme nulla, premessa necessaria per un trasferimento di poteri complessivi dalle varie capitali a Bruxelles. Decida per prima di limitare il suo parlamento nazionale a “questioni locali” e trasferisca i suoi politici più importanti a Bruxelles e senza un seggio a Roma. In questo modo l’Italia assumerebbe una vera leadership europea.
Inoltre l’Italia, antica superpotenza culturale, potrebbe avere un ruolo importante nel definire le colonne della nuova identità europea. Qui, dalla distanza e con ignoranza, mi permetto di esprimere qualche cautela sulla battaglia per l’identità delle radici cristiane dell’Europa. È una idea pericolosa perché se l’Europa riconosce le radice cristiane, la Cina può riconoscere le sue radici confuciane, l’India le radici induiste, l’Africa che cosa? Inoltre l’America non ha il diritto di essere cristiana? Mettere la religione in un documento politico programmatico rischia di essere ideologico, contaminare la stessa religione e quindi rendere difficile la diffusione del cristianesimo in aree non tradizionalmente cristiane come Cina o India.
Cosa deciderà di fare l’Italia?